“Il femminicidio è un fenomeno impressionante che scuote il Paese. Se si giunge a uccidere una donna è perché non si rispettano il desiderio di libertà e la sua autonomia. Ma va acceso un faro anche sulle forme della cosiddetta violenza economica, che esclude le donne dalla gestione del patrimonio comune o che obbliga la donna ad abbandonare il lavoro in coincidenza di gravidanze”
Sergio Mattarella 8 marzo2021 il presidente della Repubblica
Secondo il report dell’Istituto Italiano di Statistica, durante i primi sei mesi del 2020 i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi [il 45%] con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente. Il picco si è raggiunto nei due mesi di lockdown più duro – aprile e maggio – durante i quali la percentuale di donne uccise sul totale degli omicidi è stato del 50%. Un dato colpisce sopra a tutti: il 90% degli assassini erano membri della famiglia e ben il 61% partner o ex partner.
I centri antiviolenza D.i.Re. hanno lavorato duramente durante il lockdown per garantire alle donne supporto e presenza, ma il continuo e crescente susseguirsi di femminicidi richiede soluzioni sistemiche.
La rete D.i.Re rappresenta la più grande rete nazionale di organizzazioni di donne che gestiscono centri antiviolenza, case rifugio e sportelli antiviolenza in collaborazione con numerosi enti locali, ne fanno parte 82 organizzazioni distribuite in 18 regioni e province autonome (non sono presenti centri aderenti a D.i.Re solo in Molise e Valle d’Aosta).
Crescono le richieste di assistenza da parte delle donne
In una comparazione tra i dati del monitoraggio 2019 – realizzato tra i Centri antiviolenza D.i.Re – rispetto ai periodi marzo/aprile, aprile/maggio 2020 è confermata la tendenza per cui il numero totale delle donne che si sono rivolte ai Centri D.i.Re è molto più alto rispetto alla media 2019, mentre il numero delle donne “nuove” è inferiore in termini percentuali.
Emerge, tuttavia, un dato relativo al numero di donne che hanno contattato i Centri nel 2020, che registra il 91% in più rispetto alla media del 2019. Molto più alto anche del dato di marzo e di aprile 2020.
Anche attraverso la lettura di questi numeri, appare indispensabile ed urgente affrontare il tema della violenza alle donne da parte delle istituzioni che devono prendersi carico del problema con approcci integrati e di sistema. Le donne devono essere credute e dunque va cambiato l’approccio della giustizia nei confronti delle donne, con le quali le istituzioni devo iniziare a costruire rapporti di fiducia.
Violenza di genere: iniziative per combattere i limiti

“Nel mese di marzo abbiamo lanciato la campagna “Fatte di cronaca” che punta proprio a evidenziare come tutto quello che riguarda le donne – a cominciare dalla violenza, ma non solo – viene trattato dai media come un fatto di cronaca e così viene percepito dalla politica. – ha detto Antonella Veltri, presidente di D.i.Re Donne in rete contro la violenza – Questo significa che la politica, le istituzioni, ancora non tratta la violenza maschile contro le donne – che costa la vita a oltre un centinaio di donne ogni anno e costringe oltre 20.000 di loro a chiedere il supporto dei centri antiviolenza della rete D.i.Re – come un fenomeno strutturale, che affonda le sue radici nella cultura patriarcale e nella condizione di disparità tra uomini e donne che persiste nel nostro Paese.
Ed ecco allora che non è stato ancora varato il nuovo Piano nazionale antiviolenza, anche se il precedente piano triennale è scaduto nel 2020 e siamo ormai ad aprile 2021.
Questo ha conseguenze enormi per i centri antiviolenza e le case rifugio, perché è quel Piano nazionale, istituito con la legge 119 del 2013, che assicura una parte delle risorse economiche necessarie al funzionamento di quella che è stata definita dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte “la spina dorsale” del sistema antiviolenza italiano.
Prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne significa non solo sostenere i centri antiviolenza e le case rifugio, ma attivare riforme strutturali che riducano il gender gap e inneschino un cambiamento sociale e culturale incentrato sul riconoscimento e il rispetto dei diritti delle donne e della loro libertà di scelta. Significa intervenire sulla giustizia, sull’occupazione, sull’istruzione come segnalavamo con la campagna “Fatte di cronaca”.
Affermare e promuovere questo cambiamento è la missione di D.i.Re e delle 82 organizzazioni che aderiscono alla rete . Occorrono interventi di sistema, con investimenti di risorse consistenti e di lungo periodo, per far sì che la Convenzione di Istanbul sia davvero attuata e non resti l’ennesima legge sulla carta”.
Femminicidio: l’osservatorio di ricerca

L’Osservatorio di ricerca sul femminicidio nasce all’interno del PRIN 2015 “Rappresentazioni sociali della violenza sulle donne: il caso del femminicidio in Italia”. Esso vuole essere uno spazio comune di condivisione di informazioni, ricerche e analisi utili a ricostruire un quadro dettagliato di dati sulle donne vittime di femminicidio in Italia.
Ho intervistato la coordinatrice scientifico nazionale della ricerca, la prof. Pina Lalli del Dipartimento Scienze Politiche e Sociali dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna per conoscere meglio questa realtà .
Professoressa Lalli, l’Osservatorio di ricerca sul femminicidio è il termometro che attesta la condizione della violenza di genere. Perché è nato e quali obiettivi persegue?
Nel progetto di ricerca a suo tempo presentato avevamo voluto inserire l’ipotesi di costruire uno strumento di divulgazione pubblica dei risultati del nostro lavoro, che potesse soprattutto diventare un canale di collaborazione che proseguiva nel tempo promuovendo dibattito sul tema e proponendo una rete di connessione fra chi interessato a piste di ricerca su di esso. Ne sono primi esempi la collaborazione di una nostre unità di ricerca con il Centro Ricerche Rai di Torino, quella a Bologna con la Casa delle Donne, alcune in fieri con ricercatrici di altri paesi, la spontanea adesione di giovani presenti nei nostri corsi e con le loro tesi di laurea; basti pensare al lavoro prezioso e appassionato che Benedetta Grazia Cirolli Polizzi ci ha messo a disposizione fornendo la sua competenza grafica per l’illustrazione originale dei nostri dati, o alla nuova pagina in costruzione per le tesi di laurea e di dottorato sul tema. Lo testimonia anche la campagna che lei evocava all’inizio, proposta da due studentesse Erasmus e che contiamo di supportare per un rilancio in ateneo anche per i futuri incoming internazionali, in maniera da offrire testimonianze da svariati contesti. Stiamo inoltre cercando di aggiornare man mano i dati utilizzando la nostra medesima griglia di analisi fino al 2020; per il futuro occorrerà naturalmente verificare la disponibilità di ulteriori risorse.
Quando e come nasce la parola femminicidio?
Sul piano della rivendicazione diciamo politica, il termine inglese femicide fu evocato nel 1976 da Diana Russell in occasione del tribunale internazionale di Bruxelles per segnalare l’esistenza di una particolare forma di crimine legata al genere che consisteva nell’uccisione di “una donna in quanto donna”, crimine che percorreva innominato diverse epoche storiche, sin dai roghi delle streghe, e per il quale a suo parere la giornalista Carol Orlock aveva finalmente coniato tale significativa espressione. Da allora si sono susseguiti dibattiti alla ricerca di significati precisi o controversie sulla sua applicabilità operativa, ad esempio in termini di “misurazione” statistica del fenomeno. Cito in particolare quelli in contesto latino-americano, dove Marcela Lagarde propose una distinzione linguistica tra femicidio e femminicidio (quest’ultimo con applicazione più ampia a varie forme di violenza contro le donne, non solo quella estrema). Nella lingua italiana l’Accademia della Crusca ci ricorda antiche applicazioni del termine femminicidio sin dal secolo XIX, anche da parte di qualche articolo giornalistico, e ciò forse contribuisce a spiegare – oltre alla maggiore assonanza con la lingua spagnola – come mai in gran parte del dibattito pubblico si sia dunque attestata questa versione (sebbene alcuni gruppi femministi rivendichino la differenza sopra evocata). Direi che possiamo concordare appieno con quanto scrive l’Accademia della Crusca: «Un intrecciarsi di storie di parole nate in paesi diversi che hanno seguito propri percorsi fino a sovrapporsi oggi grazie a movimenti culturali che hanno investito quantomeno tutto il mondo occidentale».
Che ruolo hanno i media nel contestualizzare il femminicidio come un problema pubblico?
Un ruolo molto importante e al tempo stesso complicato. I media, e in particolare la cronaca, nel raccontare ciò che accade di importante nel mondo offrono la finestra attraverso cui possiamo orientare il nostro sguardo su di esso. Ciò ha due effetti rilevanti: da un lato ritaglia ciò che va considerato meritevole di attenzione e riflessione collettiva, dall’altro fornisce dettagli concreti dell’oggetto di attenzione dando maggiore o minore risalto a questo o quel particolare. In altre parole, lo stipite di quella finestra inquadra i fatti e ci suggerisce come interpretarli. Pertanto, dare risalto mediatico ai crimini di femminicidio contribuisce alla consapevolezza della loro esistenza come problema collettivo e non soltanto di quella determinata coppia o di quel determinato caso. Resta la complicazione sia di quali sia di come si raccontano. La nostra ricerca, ad esempio, mostra che trovano spazio di cronaca tutti i casi in cui sia un amante occasionale a uccidere (sebbene siano pochi numericamente), mentre meno si parla dei femminicidi per mano del coniuge (anche perché, forse, capita abbastanza spesso sia un coniuge anziano), o quasi per nulla si parla delle uccisioni delle lavoratrici del sesso, a fronte di un numero di articoli superiore quando si tratta di omicidi a scopo di rapina. Inoltre, quasi sempre si tende a presentare i casi come frutto di vicende individuali e di rado si riesce ad offrire dettagli che indichino piste di riflessione sul problema sociale delle disuguaglianze di genere, salvo l’introduzione innovativa – rispetto a ricerche di anni precedenti – del tema di maltrattamenti pregressi (sebbene talora ciò si presti, in modo ambivalente, ad una implicita colpevolizzazione della vittima che non abbia denunciato o abbia ritirato la denuncia). Un po’ come se, nel narrare la vicenda di un attacco terroristico o di una rapina a mano armata, ci si soffermasse quasi esclusivamente sui dettagli della psicologia individuale degli aggressori e sulle loro parole. La tendenza a considerare il femminicidio come un delitto passionale detto di prossimità, e non come un crimine che ha radici sociali e richiede soluzioni collettive, è ancora un tratto per noi culturalmente difficile da superare. I media, in questo, partecipano all’ideologia prevalente che, se da un lato condanna l’uccisione di una donna, dall’altro fa fatica a comprendere i subdoli dispositivi di regolazione sociale delle emozioni, proposti in maniera diversa per uomini e donne. Si fa dunque fatica a individuare nei modelli di socializzazione le disuguaglianze che ci costruiscono come donne con diritti inferiori a quelli degli uomini: sono meccanismi strutturali che fanno gravare sulle donne il peso di un tasso pressoché costante di questo tipo di crimine, che forse costituisce il passaggio all’atto violento del desiderio maschile di possesso estremo del corpo femminile. Come se fosse quasi-naturale per un uomo la giustificazione di un abbandono, un rifiuto, un tradimento, o di discussioni ripetute; o persino come se fosse una mera tragedia individuale il fatto che un uomo non sopporti più il peso di un’assistenza continuativa di una moglie colpita da Alzheimer.
Il giornalismo costruttivo, è un ulteriore aspetto della professione che si mette a servizio delle possibili soluzioni partendo dalla cultura del come. Come puo’ un giornalista descrivere e parlare del fenomeno affinché si inneschi un cambiamento culturale?
Trovo bellissima l’espressione «giornalismo costruttivo». Non penso vi siano ricette o bastino semplici decaloghi, anche se certamente utilissime sono le questioni aperte dalle associazioni di giornaliste che come nel Manifesto di Venezia tanto hanno contribuito al dibattito sul tema e persino a invertire la marcia. Le trasformazioni culturali non si fanno a tavolino, ma l’invito a prestare attenzione ai termini che si utilizzano quando si narrano gli eventi è un’importante spinta a cercare maggiore consapevolezza della responsabilità di ciò che si scrive. Mi viene in mente il caso di un giornalista in generale molto bravo, il quale, attaccato per un suo articolo di cronaca sull’uccisione di una donna, non capiva la ragione delle critiche: forse ho sbagliato ad utilizzare alcuni termini, disse, ma l’ho fatto solo per «per far capire qualcosa di molto complesso e sfaccettato difficile da descrivere».
Ecco, questo suo sfogo appassionato rende bene la difficoltà del compito che attende un giornalismo costruttivo quando narra un femminicidio: non è cosa semplice confrontarsi con i pregiudizi di cui si è spesso involontari portatori, perché il più delle volte sono invisibili e tacitamente acquisiti, talvolta persino interiorizzati con e nelle regole professionali.
Ciò implica fare attenzione alle parole ma anche e soprattutto al tessuto narrativo e ai dettagli che si selezionano «per far capire quello che è successo»: un fatto raccontato fra le lacrime da un assassino reo confesso non è solo un fatto, ma è la costruzione, condivisa, di una giustificazione sociale. I tempi della cronaca sono spesso troppo veloci, lo sappiamo. Eppure, potrebbe valere la pena, sempre, fermarsi almeno un attimo a rileggere – con lo sguardo rivolto non al lettore immaginario della routine professionale, ma mettendosi nei panni di un alter ego che, come un avvocato del diavolo, o anche solo come il grillo parlante di Pinocchio, ci aiuti a osservare, oggettivata nello specchio, quale sia la direzione consapevole e socialmente responsabile verso cui invita la nostra narrazione: stiamo costruendo lo stipite di una finestra da cui chiunque può sbriciare nel mondo che ci circonda”.
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