Vincent van Gogh, uno dei più grandi pittori impressionisti, disse dopo una delle volte in cui tentò di togliersi la vita (poi ci riuscì): “Volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca. Nel caso dovessi sopravvivere ci riproverò”.”
Il 10 settembre ricorre la giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, argomento delicatissimo e che merita grande attenzione. Il World Suicide Prevention Day, che ricorre dal 10 settembre 2003, è stato fortemente voluto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in collaborazione con la Federazione Mondiale per la salute mentale e all’Associazione Internazionale per la prevenzione al suicidio.
Nel corso del tempo il suicidio è stato molto studiato dal punto di vista sociologico e soprattutto si è cercato di ragionare sulle modalità per prevenirlo. Da una parte abbiamo la fragilità dei nostri ragazzi e dall’altra la spinta al suicidio che rappresenta un vero e proprio reato che avviene, sempre più spesso, attraverso le nuove tecnologie.
Purtroppo, sono tantissimi i casi di ragazzi spinti a compiere gesti incredibili e la sociologia studia le possibili cause di questa devianza. Diverse discipline come la medicina, la filosofia e la psicologia hanno cercato di spiegare un evento drammatico che non tutti riescono a spiegare.
Diverse organizzazioni come l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno pubblicato diversi report che dimostrano quanto siano allarmanti i numeri. Infatti, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), pubblicate ad aprile 2019 nel rapporto “World health statistics 2019”. In Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio. Il tasso viene calcolato facendo riferimento alla popolazione dai 15 anni in su. A togliersi la vita sono più gli uomini che le donne.
Il SUPRE (prevenzione suicidi), organismo interno all’OMS che si interessa di vigilare gli eventi suicidari definisce il suicidio come: “Un atto con esito fatale pianificato e realizzato dalla stessa vittima con l’obiettivo di produrre cambiamenti desiderati”.
Quando una persona decide di farla finita con un colpo di pistola, ingerendo pasticche o impiccandosi lascia un segno indelebile nel cuore e nelle coscienze di quanti gli sono stati vicini perché avvertono, non solo il senso di colpa, ma anche un forte senso di impotenza.
Noi sociologi spieghiamo ai nostri studenti il suicidio attraverso la voce di uno dei padri della disciplina, uno dei padri della sociologia, Émile Durkheim che in uno dei suoi saggi dal titolo: “Il suicidio” definisce questo gesto: “ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla vittima pienamente consapevole del gesto.”
Suicidio altruistico, egoistico e anomico
Durkheim ha dato vita ad un’analisi strettamente sociologica, specificando tre modalità sociali: suicidio altruistico, egoistico e anomico.
Il suicidio altruistico vede la persona sacrificarsi per confermare o proteggere i valori etici del gruppo. Mi sacrifico, poiché sto portando avanti un’idea o un mio valore che non mi viene riconosciuto fino in fondo. Durkheim lo ritiene un atto positivo dal punto di vista sociale.
Il suicidio egoistico riguarda quanti avvertono di essere esclusi e che non riescono ad integrarsi nel gruppo. Una lotta interiore tra la voglia di affermarsi e le possibilità concrete di affermazione sociale. Durkheim lo considera un atto negativo dal punto di vista sociale.
Il suicidio anomico (contro le regole) vede l’individuo soffrire all’interno della società. Questo tipo di suicidio viene compiuto da chi vede i suoi desideri repressi da regole autoritarie. Durkheim lo definisce un atto estremo, la cui frequenza aumenta in alcuni momenti particolari. Cresce durante le crisi economiche oppure anche nel momento di benessere economico, mentre dovrebbe diminuire nei periodi in cui ci sono conflitti, guerre o disordini politici.
Noi abbiamo vissuto un momento terribile a causa della pandemia, due anni in cui ci siamo isolati e che hanno generato ulteriori fragilità in particolar modo tra i più piccoli.
I preadolescenti e gli adolescenti hanno trascorso in rete 5/6 ore e hanno navigato da un sito all’altro senza conoscere i pericoli a cui andavano incontro. Nei primi mesi della pandemia ho affrontato un problema molto grave ovvero la presenza di forum di istigazione al suicidio.
Ricordo il caso di Matteo Cecconi episodio che ha fatto molto discutere e riflettere l’opinione pubblica. Il 26 aprile 2021 Matteo seguiva le lezioni di didattica a distanza. Nel frattempo, tra una lezione e l’altra, annunciava la sua morte su un sito che si presenta come “forum di discussione a favore del suicidio” e che conta 17 mila iscritti.
La regola di questo forum prevede che: “Non ti incoraggiamo a fare nulla. Sosteniamo il tuo diritto di vivere al massimo o di farla finita se è ciò che desideri sinceramente”. Nessuna frase scritta dagli utenti può essere considerata istigazione al suicidio e Matteo è morto nel silenzio assordante di chi sapeva e non ha chiamato nemmeno le Forze dell’Ordine per fermarlo o per dare l’allarme.
In un periodo come questo è difficile stabilire le motivazioni di una simile azione e trovare un senso logico a tutto quello a cui stiamo assistendo.
La pandemia: gli effetti sui ragazzi
Mi sono occupato tantissime volte degli effetti del Covid 19 sui giovani e, attraverso le mie ricerche, ho potuto constatare il senso di solitudine che ha pervaso le loro vite in questo ultimi due anni. Una generazione che ha mostrato le sue grandi fragilità. Infatti, durante la pandemia sono aumentati del 30% i ricoveri per autolesionismo o suicidi.
Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Vicari ha dichiarato, al portale Huffingtonpost, la presenza di due fenomeni: “Adolescenti che per auto affermarsi diventano aggressivi, fanno male agli altri, fanno male ai genitori, si tagliano, diventano intrattabili e giovani che si chiudono a riccio, si rifugiano nel loro mondo e nella loro stanza e non sappiamo se avranno voglia di uscire fuori da questo guscio, una volta passata la tempesta. Il fatto è che la pandemia ha aumentato lo stress e lo stress facilita la comparsa di una serie di disturbi, principalmente disturbi d’ansia, disturbi del sonno e depressione.
Nel periodo di lockdown la mancata interazione in presenza ha comportato un cambiamento di stile di vita che ha acuito dinamiche che palesano disagi già latenti nei nostri giovani. La relazione virtuale, di qualsiasi natura essa sia, non può mai compensare la relazione vissuta in concretezza nella realtà di tutti i giorni, anzi diventa frustrante”.
Questo ci fa capire che la società non ha i mezzi per aiutare queste persone che invece hanno bisogno di credere nel valore della vita.
Noi dobbiamo combattere tutti i giorni per affermare il valore della vita e dobbiamo assicurarci che la nostra sia una società dove esista il senso di comunità.
Abbiamo perso il senso della comunità e abbiamo interpretato nel peggiore dei modi l’uso delle tecnologie, dando spazio a terribili devianze. Quando un individuo vive in una condizione di iperrealtà non riesce a comprendere cosa sia reale o cosa sia virtuale. Allora, a quel punto, diventa più semplice spingere le persone al suicidio.
Ogni giorno dobbiamo tentare di recuperare i valori, il senso di comunità e soprattutto non possiamo permettere che i sogni delle nuove generazioni vengano spezzati e che diverse vite umane possano finire.
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