Da qualche giorno è apparso su Tik Tok il video di una ragazza, il cui account è @sonomelaidi, che affronta il tema della spettacolarizzazione del dolore sui social.
Mi ha colpito moltissimo quello che ha detto:
“Premetto che mi dispiace tantissimo e non voglio biasimare la necessità di esternare il proprio dolore, però penso che sia inquietante il modo in cui i social abbiano rovinato completamente i modi e anestetizzato la sensibilità delle persone. Il dolore è più spettacolarizzato che condiviso. Mi mette tristezza sapere che la vita di un ragazzo che è arrivato a compiere un gesto del genere sia banalizzato in un Tik Tok con una canzoncina da dieci secondi e accompagnato da un balletto. Un argomento delicatissimo dato in pasto alla freddezza dei socia. Utenti che si abituano sempre di più a vedere questa banalizzazione del dolore tanto da diventare indifferenti e poco empatici, di fronte a notizie del genere. Soltanto, perché i social sono da sempre visti come fonte di svago non significa che i contenuti che decidiamo di portare debbano sempre essere trattati con la stessa superficialità. Quindi, ci sono tantissimi modi per parlare del proprio dolore, però sempre preservando la sua dignità. In questo caso si sta parlando di una vita persa e non di un argomento qualsiasi”.
Non fa una piega il ragionamento che ha fatto questa ragazza sulla spettacolarizzazione del dolore e anche su come noi, in realtà, vediamo i social.
Probabilmente, va fatto un piccolo passo indietro e dovremmo pensare a tutto quello che rappresentano i social per noi, come noi ci poniamo sui social e perché poi si arriva a spettacolarizzare il dolore. Come se non bastasse riusciamo a parlare del suicidio di un uomo con estrema facilità come se stessimo discutendo di un piccolo incidente.
Cosa rappresentano i social network per noi
Raccontiamo quello che facciamo e raccontiamo anche la nostra intimità per riuscire a guadagnare “like” su Facebook, o “cuoricini” su Instagram, e a far scattare quel sentimento di pietà, quell’ onda emozionale che ci può portare ad acquisire approvazione da parte del nostro pubblico o meglio dei nostri followers.
La spettacolarizzazione del dolore, nell’ultimo periodo, ha colpito veramente tutti. Non riesco a dimenticare un episodio avvenuto a Crema in cui solo una persona ha tentato di salvare una donna che si è data fuoco sul bordo della statale che collega Crema a Milano. L’uomo con un asciugamano in mano ha spento la povera donna trentottenne, ospite della vicina comunità psichiatrica, scappata pochi minuti prima in preda a un delirio di morte e disperazione. Intorno, solo gente con gli smartphone in mano. Gente che filmava quello che stava accadendo come se fosse un trofeo dell’orrore. E l’unico soccorritore cercava di salvarle la vita.
Basti pensare ai servizi funebri sempre più personalizzati, come i funeral homes, con cui si restituisce al defunto un’aria di naturalezza come se fosse ancora vivo; ai siti dedicati, in cui ognuno può lasciare un messaggio di cordoglio o un encomio funebre.
La televisione, poi, esaspera e amplifica allo scopo di produrre eventi in grado di catalizzare l’attenzione e quindi un funerale diventa un momento a cui bisogna partecipare, proprio perché filtrato dalla telecamera che sacralizza. La cassa di risonanza dei mezzi di comunicazione abitua lo spettatore ad attutire la sensazione di disagio, sino a rendere la morte un’esperienza mediatica, artificiale e distaccata. Durante la pandemia non sono mancati i funerali in diretta Facebook.
Spesso il web riporta immagini e video girati in momenti impensabili: durante i terremoti, durante le alluvioni e gli tsunami, durante i peggiori incidenti stradali, durante il pestaggio di donne o extracomunitari e potrei elencare molto altro. Non mancano le storie raccontate in luoghi dove sono avvenuti delitti efferati per esempio Cogne o Avetrana.
Si è diffusa l’idea che sui social possiamo postare tutto, compreso il dolore. Una sofferenza che si può commercializzare senza alcuna importanza.
I nostri percorsi sui social network
Che cosa viene fuori dalla mia attività di ricerca? Noi sui social network facciamo due percorsi esperienziali: diamo vita al nostro “io iperfluido” e creiamo profili falsi.
Costruire un “io iperfluido” significa mettere sui nostri profili social quello che ci fa guadagnare consensi e che ci aiuta ad essere apprezzati dagli altri. Noi creiamo un io che può piacere agli altri indipendentemente dalla nostra identità, da quello che noi siamo e dalla nostra vera personalità.
Accanto al nostro “io iperfluido” c’è la necessità di avere profili falsi per mostrarci come vorremmo in effetti apparire ma come, a volte, non possiamo apparire per il nostro ruolo sociale o perché non vogliamo far sapere come siamo veramente.
Quando ero un giovane cronista, tantissimi anni fa, era addirittura una regola etica quella di non scrivere articoli sui suicidi. Adesso, tranquillamente i Media parlano di suicidi con dovizia di particolari. Un suicidio postato sui social scatena i commenti degli utenti e alcuni possono essere anche estremamente crudeli. Inoltre, ci sono stati casi di suicidi annunciati sui social o casi in cui la persona che coltiva l’idea di togliersi la vita ha deciso di condividerla con gli altri. Esistono forum di discussione a favore del suicidio ed è davvero assurdo ed inconcepibile.
Tutto questo quale rapporto può avere con le emozioni o con il nostro modo di manifestare quello che stiamo vivendo? Noi consumiamo sui social una rappresentazione del dolore che non sempre è corrispondente a quello che noi proviamo in quel momento.
Cosa cerchiamo sui social network?
Ricordiamoci che quello che noi postiamo sui social può ottenere, come sappiamo, tre tipi di reazione: il like, una condivisione o un commento. Queste sono le tre azioni che noi possiamo ricevere o compiere sui social network. Allora come comportarci rispetto al tema della spettacolarizzazione del dolore? In realtà, io non vado sui social network a spettacolarizzare il dolore, perché in quel momento sento il bisogno di spettacolarizzare e non si abbina alla narrazione di un’emozione, ma lo faccio perché può creare un’emozione positiva nel mio pubblico. Questa prospettiva cambia in maniera inequivocabile quella che può essere la mia buona intenzione.
Torno a commentare il video che questa ragazza ha postato su Tik Tok, facendo riferimento alla frase in cui sostiene che: “I social sono da sempre visti come fonte di svago non significa che i contenuti che decidiamo di portare debbano sempre essere trattati con la stessa superficialità”. Credo che abbia ragione e credo anche che i social siano diventati il nostro modo per comunicare, ma ci sono situazioni che vanno preservate e protette.
Certo, non è facile parlare del suicidio di una persona che conosci e non è facile farlo attraverso un social network, dove ci sono anche i tempi contingentati. Oltretutto, per far capire a quanti ti seguono quale messaggio vuoi veicolare è necessario, alcune volte, associare un’ immagine o diverse immagini. Nel caso di Tik Tok devi abbinare la musica o nel caso della storia su Instagram sei costretto a spiegare tutto in pochi secondi.
Insomma, è come se noi volessimo banalizzare quello che sentiamo dentro alla nostra anima o se mettessimo in discussione il nostro modo di reagire rispetto a degli eventi che ci provano nella vita.
Tutto questo si sposa con quella che è l’idea di Mark Zuckerberg, o di altri proprietari di piattaforme, che stanno rendendo la nostra vita sempre più utile per il virtuale e sempre meno per il reale.
Questa nuova dimensione si chiama Metaverso, dove proveremo ad unire reale e virtuale. Ci viene presentato come qualcosa di semplice, ma l’elemento che deve farci riflettere è che all’interno di questa dimensione viene compreso anche il dolore.
Si ha la sensazione che la situazione ci sta totalmente sfuggendo di mano, perché la dignità della persona va sempre conservata e difesa soprattutto nella malattia e nella morte. Il rispetto dell’uomo non può essere violato per nessuna ragione al mondo.
Il filosofo Derrida ci aveva avvertiti: “Quando muore una persona, con lei scompare anche tutto un mondo.” Ed è assolutamente vero e noi a quale mondo vogliamo appartenere quello reale o quello virtuale? O ad entrambi? Ma ha senso farlo con consapevolezza.
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