Bisogna sempre sapere cosa dire. Ci viene insegnato questo, fin da quando siamo bambini. Dalle più basilari regole della buona educazione, demandate dai nostri genitori quando siamo bambini, che ci chiedono di salutare quando di esce da un negozio, di domandare «per favore» e di non dimenticare il «grazie» per un gesto ricevuto, fino a imparare le forme verbali più dettagliate, più formali, come fare le condoglianze per un lutto, le congratulazioni per una laurea o gli auguri di buon compleanno. Crescendo, incontriamo professionisti della comunicazione che ci insegnano quali sono le cose da dire durante un colloquio di lavoro oppure per la buona riuscita di un appuntamento con un cliente; leggiamo libri che ci spiegano quanto potere abbiano le parole che pronunciamo, capaci di creare la realtà, di condizionare il pensiero proprio e altrui; chi è più vicino alle filosofie spirituali, di qualunque religione, impara il potere della preghiera, della meditazione, dei mantra: parole che sono state studiate proprio per risuonare all’interno del corpo attraverso fisiche vibrazioni capaci di inficiare sulla mente.
Il valore del non detto
Sembra mancare l’attenzione su un dettaglio della comunicazione, quasi come se fosse scontate sebbene non possa esserlo così come non lo è imparare cosa va detto. Manca l’attenzione su cosa non va detto. Alda Merini, poetessa milanese morta nel 2009, ne spiega bene l’importanza in una delle sue più famose dichiarazioni, capaci di essere profondamente potenti nella loro ermeticità: «Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire». Vi è, infatti, una forma di empatia superiore nell’intelletto di chi, dopo aver immagazzinato le regole del “buon dire”, capisce cosa invece non va detto. Quali sono le parole da non utilizzare. Le espressioni da evitare. Il “non detto” diventa così un vero e proprio valore umano, appartenente a chi ha deciso di dare alla propria comunicazione un’attenzione maggiore, affinché essa possa essere il più possibile costruttiva nei confronti dell’interlocutore, uditore o lettore che sia.
Il potere delle parole sbagliate
Studi di psicologia e di filosofie appartenenti al settore olistico ci spiegano, ormai da anni, quanto sia forte il potere delle parole che utilizziamo (teorie spirituali sostengono che anche le parole che scegliamo per i nostri pensieri siano condizionanti), poiché sarebbero in grado di modificare la nostra realtà, divenendo convinzioni sulle quali basiamo i nostri valori e le nostre scelte quotidiane. Allo stesso modo, i termini che dovremmo eliminare dal nostro personale e abituale dizionario comunicativo, sono quelli che, spesso senza che ce ne rendiamo conto, influenzano in modo distruttivo – e non costruttivo – la nostra vita, ma anche quella dell’altro. Siccome parliamo di comunicazione, in questo caso poniamo l’accento a ciò che avviene tra un individuo e l’altro (e non nel rapporto con se stessi) in merito alle parole che scegliamo. È probabile, tornando nuovamente indietro nel tempo, che la maggior parte di noi si ricordi di parole che ci sono state dette – dai compagni di classe, da sconosciuti, ma anche dalle persone a noi più vicine – che ci hanno feriti o delusi così tanto da aver in qualche modo influenzato la nostra vita da quel momento in poi. Vi sono persone che per un «ti trovo ingrassato / dimagrito», detto anche in assoluto buona fede, hanno alterato le loro abitudini alimentari perché è stata loro sufficiente quell’espressione per sviluppare in sé un’insicurezza. Non parliamo, dunque, del «buon appetito» che il bon-ton dice di evitare a tavola, ma della capacità d sviluppare un’empatia comunicativa capace di fermarci dinanzi a ciò che stiamo per esprimere.
Questo nel mondo del giornalismo e della comunicazione
L’argomento si lega in maniera profonda a chi si occupa di giornalismo o, più in generale, di comunicazione. A chi, insomma, ha fatto delle parole il suo mestiere e per tanto ne è responsabile. Le parole sono in grado di far nascere un pensiero, dunque una credenza, dunque una convinzione nella mente dell’altro ed è così che nascono spesso le convenzioni sociali e gli stereotipi contro i quali diventa difficile combattere. Un professionista delle parole, dinanzi a qualsiasi cosa stia per esprimere ed esporre al pubblico, ai lettori o agli uditori, deve chiedersi quale reazione mentale provocherà nell’altro; ci sono titoli di giornali, ma anche diciture all’interno degli articoli, che diventano insidiosi perché hanno un silenzioso sottinteso che, seppur celato, hanno un potere di influenza forte e capace di ramificarsi. Non è sufficiente giustificare l’utilizzo di certi termini con la loro presenza all’interno del dizionario italiano: avere un’empatia comunicativa significa chiedersi se valga la pena creare un dibattito pur di alimentare le interazioni sui social se il rischio è quello di far passare messaggi fuorvianti e pericolosi.
Facciamo un esempio pratico. Un titolo che racconta un femminicidio con l’aggiunta di «la vittima aveva una relazione extraconiugale», può sembrare voler giustificare l’assassino. Certo, improbabile che sia quello l’intento, ma è facile che nell’inconscio di chi legge si installi proprio il pensiero che, in qualche modo, la reazione del marito sia comprensibile e quindi giustificabile. Ciò può avvenire anche in altri settori giornalistici e attraverso semplici parole: usare, ad esempio, il termine “depressione” se si parla di una fetta sociale di giovani che sono manchevoli di motivazioni, sogni o ispirazioni, è fuorviante rispetto alla patologia stessa della depressione, che potrebbe così sembrare un qualsiasi stato emotivo triste o annoiato e non una patologia qual invece è. Quando ci esponiamo a un pubblico, specialmente se vasto e eterogeneo come quello del Web: non si può certo pretendere da se stessi di avere l’approvazione di tutti, questo non solo non è possibile, ma non è nemmeno l’obiettivo dell’empatia di cui parliamo; l’attenzione è rivolta alla possibilità che le nostre parole possano innescare un pensiero in una sorta di Mastermind sociale, capace così di condizionare più individui e di creare sovrastrutture culturali pericolose.
Cosa comporta sviluppare questa capacità di scelta
Non solo gli “addetti al settore” della comunicazione hanno il dovere morale di sviluppare questa capacità di scelta nei confronti delle parole che comprendiamo di non dover dire: si può sostenere che, attraverso i social e/o i blog, abbiamo tutti un ruolo di comunicatori. I commenti che lasciamo su Facebook, le battute a cui rispondiamo su Instagram o ciò che diciamo in un video su TikTok, potrebbe rivelarsi distruttivo per chi legge o ci ascolta. Sviluppare questa sensibilità verso le parole che capiamo essere sbagliate, aiuta il nostro intelletto non solo a scoprire di avere un vocabolario più ampio – migliorando così la nostra capacità verbale -, ma anche a entrare in maggiore sintonia con l’utente che riceve il nostro messaggio.
Le parole, sostiene un famoso aforisma, possono costruire muri o aprire finestre: il passaggio da una comunicazione negativa a una comunicazione costruttiva non sta solo in ciò che diciamo, ma anche in ciò che scegliamo di non dire.
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