Quando entro in aula per iniziare a dialogare con gli Universitari o gli studenti dei Master, chiedo loro se abbiano mai sentito parlare di occupabilità (o di employability, in inglese). Pochissime mani alzate, qualche timido tentativo di abbozzare una risposta in funzione del senso del termine, ma poco più.
Se c’è un tema, in Italia, che non è ancora emerso in tutta la sua potenza in relazione al cambio di paradigma che stiamo attraversando sul lavoro, è proprio questo: occupabilità. In parole semplici, è la nostra capacità di rimanere “appetibili” dal mercato del lavoro che cambia in continuazione.
Dovremmo dunque iniziare a sostituire, sia lessicalmente che in termini di ragionamento interiore, i termini ormai desueti e stantii come “occupazione” e “disoccupazione” – con cui la statistica continua a ragionare, perché oggettivi e tangibili – inserendo nel nostro circuito neuronale la consapevolezza che in un mondo magmatico, liquido, contraddittorio e paradossale, in costante mutamento e transizione, le nostre competenze acquisite negli anni di studio sono solo una piccola parte di un quadro più ampio. Il titolo di studio, che fino a 20 anni fa ci consegnava un ingresso quasi automatico nel mercato del lavoro, è tornato a recitare il ruolo del “pezzo di carta”, ma nell’accezione meno nobile del termine, nel senso che a un anno e mezzo dal suo conseguimento è già svalutato. Non fraintendetemi, non è un invito a non laurearsi, ci mancherebbe. Anche perché l’Osservatorio Job Pricing ha rivelato che investire in istruzione permette di sopportare meglio le crisi economiche, spiegando che dalla crisi del 2008 ad oggi il tasso di disoccupazione dei laureati è l’unico ad essere rientrato ai livelli pre-crisi.
Credo invece che sia profondamente non attuale il ragionamento – ancora presente in tante famiglie e in molti ragazzi – che dovrebbe vedere la chiave di accesso al lavoro con l’ottenimento della laurea o del master. I motivi sono profondamente connessi al tema employability, ma anche ad alcuni evidenti errori di percezione. Secondo un sondaggio Gallup, il 96% dei leader universitari crede di preparare gli studenti per il posto di lavoro, ma solo l’11% dei leader aziendali è fortemente d’accordo. In effetti, il 91% dei datori di lavoro concorda sul fatto che per raggiungere il successo nelle proprie aziende, la capacità dimostrata di un candidato di pensare in modo critico, comunicare chiaramente e risolvere programmi complessi sia più importante del suo diploma di laurea.
Occupabilità: come la costruiamo?
E dove li acquisiamo, questi superpoteri richiesti dal mondo del lavoro? Nell’occupabilità, ovvero nell’esposizione alle situazioni della vita che ci mettono a disagio, che ci spingono ad essere proattivi, a contatto con le altre persone, ad uscire dalla comoda zona di comfort che diventa spesso una gabbia. Così come diventa un corridoio a senso unico il percorso universitario. Un corridoio lungo e stretto in cui si entra in piccole porte a destra e a sinistra (gli esami) per vedere un’altra porta alla fine del tunnel (la tesi), ma nel frattempo ci si perde, tutto intorno, quella esposizione agli stimoli della vita che fa tutta la differenza nell’acquisire empatia, intelligenza emotiva, adattabilità, capacità comunicative, pensiero critico: tutti superpoteri fondamentali per nuotare nel mare in tempesta che è il mercato del lavoro, insieme a competenze linguistiche, digitali e tecniche.
E così, mentre abbiamo in mente il vecchio paradigma: lavoro uguale posto, sicurezza, garanzia, tempo indeterminato, stiamo perdendo di vista il nuovo, quello dell’occupabilità, che mette la palla nel nostro campo spingendoci a progettare e riprogettare continuamente noi stessi, aggiornarci, studiare, imparare a imparare, per poi disimparare e re-imparare ancora qualcosa di nuovo. “I lavori invecchiano in fretta”, recita Lorenzo Cavalieri, autore del libro “Il lavoro non è un posto”, e noi siamo invece invitati a rimanere forever young, attrattivi e interessanti per aziende che stanno attraversando – come noi – tempeste durissime, che vedono al centro della mappa l’incertezza e tutto intorno la complessità.
La chiave dell’eterna giovinezza sta proprio nell’occupabilità, e non possiamo farla rimanere sommersa e a beneficio di pochi. Occorre parlarne ai ragazzi fin dalle scuole medie, per prepararli al mondo che verrà. Un mondo assolutamente incerto, volatile, complesso, ambiguo, ha bisogno di persone flessibili, proattive e imprenditive, in grado di assumersi delle responsabilità e portare il proprio contributo alle organizzazioni con cui andranno a collaborare.
Tranne poche lodevoli eccezioni – diverse Università hanno avviato, finalmente, i primi corsi sulle competenze trasversali – questi superpoteri dovremmo acquisirli da soli. Come? Attraverso l’auto-riflessione, l’autovalutazione, praticando l’ascolto profondo, agendo sul dialogo interiore, chiedendo feedback ed entrando in empatia con gli altri. Tutte azioni gratuite ma pesanti dal punto di vista dell’impegno a scavare dentro di noi per trovare la forza di reagire in maniera positiva alle avversità che arriveranno. Senza smarrire la rotta principale: che è quella della nostra crescita umana, personale e professionale. Perché le due dimensioni, ormai, sono profondamente interconnesse.
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