È gennaio ancora per qualche ora. Come ogni anno mi ritrovo a inaugurare l’agenda con l’entusiasmo del nuovo. Ci sono alcune abitudini che restano nel tempo. Una di queste è trascrivere, di anno in anno, sulla mia Moleskine in corso di validità la citazione di Brené Brown che dice: “Le storie sono dati con un’anima”. La porto sempre con me a ricordarmi che l’empatia è uno dei doni più grandi che chi fa informazione possa avere. Trovo che le parole della Brown, che di empatia si occupa da diverso tempo, aiutino a comprendere un elemento chiave della narrazione giornalistica: possiamo raccontare meglio le storie se riusciamo a percepire il livello emotivo di chi ne è coinvolto.
So che mi sto mettendo in un flusso di pensieri collettivi dalle sfumature infinite, ma io in questo concetto dell’empatia associata al giornalismo credo per diverse ragioni. Provo a raccontarle in queste righe. Non con l’intenzione, sia chiaro, di far cambiare idea agli scettici ma semplicemente perché trovo che mettere in circolo le proprie idee e visioni contribuisca in qualche modo a movimentare il dibattito pubblico. Elevarlo e portarlo ad abbracciare punti di vista che possano contribuire ad allontanarci dagli stereotipi. In questo periodo storico, mi pare di capire, il giornalismo non gode di ottima salute e buona credibilità. Forse è arrivato il momento di spingere le riflessioni anche al di fuori dei terreni battuti da tempo.
Da persona fortemente empatica ho vissuto anni in cui mi sono convinta che il mio approccio alle storie fosse sbagliato. Son caduta a piè pari nello stereotipo della figura del giornalista cinico e distaccato. Ma quanto mi è stata scomoda questa definizione lo sento ancora oggi. Me lo dice lo stomaco ogni volta che ripenso a come avrei voluto trattare diversamente le storie che ho raccontato per una parte della mia vita professionale. Quel passato, però, mi ha lasciato un grande insegnamento: empatia non significa essere risucchiati dalla storia. E credo sia questo il punto. Per me lo è stato, almeno. Un punto di svolta vero e proprio. Ho cominciato ad ascoltare il mio desiderio di entrare nelle storie anche dal punto di vista emotivo e a lasciarmi guidare per un po’. So che ha funzionato perché ho iniziato a stare più comoda nella narrazione. E per buona pace di chi ci invita con insistenza a uscire dalla zona di comfort, di tanto in tanto è bene riconoscere chi siamo e dove stiamo bene dando il meglio di noi.

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L’empatia è un portale per l’esperienza
L’empatia è un portale per l’esperienza, non ha nulla a che vedere con il concetto di assorbimento. Non sarebbe utile farsi sopraffare dalla storia e dalla vita dei protagonisti. Certo che no. Ma attraverso il flusso emotivo possiamo, noi professionisti dell’informazione, comprendere meglio il significato della storia e umanizzare i dati.
L’empatia su cui stiamo riflettendo insieme è quella definita dai neuroscienziati “cognitiva”, ossia la capacità di immaginare che tipo di esperienza si possa vivere nei panni di qualcun altro. È una delle qualità più sottovalutate dai giornalisti, forse perché spesso la si confonde con la simpatia o con l’empatia emotiva. La differenza è importante: è possibile immaginare com’è essere una determinata persona (empatia cognitiva), anche quando è lontana anni luce da noi, senza dispiacersi per lei (simpatia) o sentirsi allo stesso modo (empatia emotiva).
Il giornalista che mette in campo l’empatia nella sua dote cognitiva riesce a scavare più a fondo nella storia identificando il perché degli accadimenti. Diventa efficace nell’esplorazione di un problema e nel racconto delle dinamiche umane che entrano in gioco. Ora azzardo un’affermazione: l’empatia ci rende più critici. Dove l’approccio critico è inteso come strumento e non come fine ultimo della narrazione. Senza empatia il rischio di cadere negli stereotipi è alto. E lo vediamo scorrendo semplicemente le prime pagine dei media: “il politico corrotto”, “l’immigrato clandestino”, “il giovane apatico”, “il pensionato razzista”, “il criminale”, “la vittima”: tutti cliché superabili con una buona dose di empatia.
Antje Glück, docente di giornalismo e media digitali presso la Bournemouth University nel Regno Unito, descrive l’empatia come parte del capitale emotivo dei giornalisti definendolo uno strumento utile a comprendere lo stato mentale ed emotivo degli altri. “I giornalisti capaci di empatia sono più efficaci nel garantire la collaborazione dei soggetti protagonisti delle storie, poiché sono in grado di individuare elementi utili alla narrazione non verbali e, quindi, più sottili e quasi impercettibili”.
L’esperienza empatica nel giornalismo è un super potere. Lasciatemelo scrivere. Consente di costruire ponti solidi tra le persone e di far apparire porte là dove non ne esistevano. E fa ancora di più: ci permette di entrare in punta di piedi nella vita degli altri ricordandoci che ogni esperienza porta con sé un bagaglio ricco di dettagli che portano la narrazione a un livello ben più profondo. E questo si traduce nell’abbattimento degli stereotipi che sono frutto della non conoscenza.
E non è forse, questa, una delle strade possibili verso la costruzione di una relazione basata sulla fiducia tra media e pubblico?
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