In Italia si fanno sempre meno figli. Questo “inverno demografico” crea un disequilibrio tra le generazioni: ci sono pochi giovani e troppi anziani.
Secondo i dati Istat riferiti al 2022, i bambini da 0 a 14 anni rappresentano il 12,7% della popolazione residente in Italia, mentre gli over 65 sono il 23,8%.
Garantire alle generazioni più giovani maggiori certezze sul proprio futuro
Il primo passo da fare per invertire la rotta deve venire dalle istituzioni: serve garantire alle generazioni più giovani maggiori certezze sul proprio futuro.
Attraversiamo anni difficili: pandemia, crisi climatica, guerre, incertezza economica. In momenti del genere tendiamo a essere prudenti, a posticipare decisioni importanti, come comprare casa o fare un figlio, perché sentiamo di non avere la possibilità di poter far fronte a impegni così grandi.
Questa riflessione, affiancata all’evidenza di un mercato del lavoro italiano dannatamente critico nei confronti dei giovani e delle donne, sono il primo ostacolo alla scelta delle coppie giovani di formare una famiglia.
Pensare di fare un figlio in Italia, oggi, dà le vertigini
I giovani non trovano lavoro, per i datori di lavoro o sono troppo skillati o non hanno nessuna esperienza. Se lo trovano, sono sottopagati.
Se entrambi i membri della coppia riescono ad ottenere un lavoro, ma uno di loro è donna, le cose si complicano ancora di più.
Se in una coppia in cui c’è una donna si decide di fare un figlio, le probabilità che quest’ultima riesca a fare carriera, o semplicemente a mantenere il suo lavoro nel tempo, si riducono drasticamente.
I nonni sono i pilastri del supporto alle lavoratrici madri
Ce lo dice l’Istat: i nonni, in un modello che si replica a qualunque età, sono il pilastro del supporto alle lavoratrici mamme con figli fino ai 10 anni.
Nei casi in cui i genitori siano entrambi occupati, i nonni si prendono cura dei piccoli di famiglia nel 60,4% dei casi quando il bambino ha fino a 2 anni di età, nel 61,3% quando il bambino ha da 3 a 5 anni e nel 47,1% se ha più di 8 anni.
Cioè, se i tuoi genitori o quelli del tuo compagno o della tua compagna non possono occuparsi dei tuoi figli, la tua vita sarà inconciliabile tra famiglia e lavoro: non potrai mandarli al nido perché costa come un mutuo.
A meno che non lavori in una multinazionale gigantesca, non potrai allattarli al lavoro, né ottenere lo smart working o la flessibilità d’orario. Per le micro, piccole e medie aziende italiane questi sono costi insormontabili, che non possono permettersi.
Non ti aiuteranno nemmeno i congedi parentali.
Il lavoro delle donne mamme
Secondo il rapporto BES, Benessere equo e sostenibile dell’Istat “In Italia, lo svantaggio delle madri occupate è evidente. La presenza di figli, soprattutto se in età prescolare, ha un effetto non trascurabile sulla partecipazione della donna al mercato del lavoro […]. Riuscire a conciliare lavoro e tempo di vita è un obiettivo fondamentale per il benessere sia degli uomini sia delle donne, ma nel nostro Paese si fatica a trovare un equilibrio”.
Tra le ragioni che ostano il raggiungimento di questo obiettivo, è fondamentale la ripartizione del lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia, ancora squilibrata a svantaggio delle donne.
Le ultime a entrare, le prime a uscire
“Le ultime a entrare, le prime a uscire”. È questa la sintesi della condizione professionale delle donne nel mercato del lavoro, che tuttora persiste in Italia”, ci dice il Consiglio Nazionale Economia e Lavoro, che trasferisce un concetto usato in logistica al mercato del lavoro italiano.
Se lo leggiamo in termini di opportunità di ingresso nell’occupazione e di rischio di uscirne prima di altri, è facile individuare quali segmenti risultino più deboli: i giovani, le donne e gli stranieri , i quali presentano tutte le caratteristiche per essere confinati nell’alone che circonda il nucleo più stabile dell’occupazione, costituito da uomini delle classi centrali d’età, se non le più anziane, e di provenienza nazionale”.
Le scelte professionali delle donne che decidono di diventare madri sono scelte difficili, che incidono sul loro futuro non solo professionale ma anche economico, sulla loro autonomia e indipendenza, sulle loro opportunità future.
Carenza di servizi, pregiudizi sul luogo di lavoro, difficoltà strutturali di una società che non supporta le lavoratrici madri e fa sì che le donne si trovino spesso di fronte a un bivio penoso: o accettare le briciole o smettere di lavorare.
Lavorare dispari
Le donne, quindi, a differenza degli uomini, scontano ancora un notevole svantaggio quando prende corpo la maternità. E questo avviene non solo sul versante occupazionale, ma anche su quello retributivo.
Alcuni ricercatori hanno rilevato come i dati italiani sul mercato del lavoro, che fanno luce sulle penalizzazioni femminili, in termini di occupazione e salario, successive alla nascita di figli, siano precedute da una situazione già poco equilibrata anche nelle fasi iniziali della carriera, quando è meno probabile (data l’età media delle madri al parto che è di circa 34 anni) che le giovani siano già impegnate nella cura dei figli, ed è invece più verosimile che siano focalizzate nel costruire il proprio percorso professionale.
La conclusione dei ricercatori è che le differenze esistono già a inizio carriera e tendono ad aumentare nel tempo. È facile ipotizzare che il gap iniziale si ripercuota nelle fasi di carriera successive quando, ad esempio alla nascita del primo figlio, la coppia debba decidere quale dei due genitori dovrebbe rinunciare in parte (con il part-time) o del tutto al proprio lavoro.
Anche solo per un mero calcolo economico, la scelta finirà col ricadere su chi ha un reddito da lavoro più basso, e indovina di chi è il reddito da lavoro più basso?
Così si genera un circolo vizioso che tende a escludere le donne dal mercato del lavoro.
La disparità salariale tra uomini e donne
È d’obbligo precisare, a questo punto, che la disparità salariale di genere non avviene nel momento in cui un uomo e una donna sono assunti per la stessa mansione. In quel momento percepiscono lo stesso stipendio.
La disparità salariale in Italia riguarda principalmente la progressione delle carriere, dove gli uomini hanno maggiori opportunità di crescita rispetto alle donne, soprattutto se subentra la maternità.
Donne madri precarie e in part time
Secondo Il “Gender Policies Report” dell’INAPP21, “La ripresa occupazionale del 2021, letta attraverso i dati Inps sui nuovi contratti attivati nel primo semestre 2021, presenta profonde differenze di genere.
I contratti delle donne, numericamente inferiori a quelli maschili, presentano al loro interno un’incidenza comparativamente maggiore della precarietà contrattuale. In pratica, non solo i contratti sono meno numerosi, ma anche più fragili.
Nello specifico, guardando al totale del numero di attivazioni contrattuali (sul totale delle attivazioni) nel I semestre 2021 per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato.
Seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo in quarta istanza, l’indeterminato (14,5%).
Per contro, degli oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, subito seguito dall’indeterminato (quasi un’attivazione su cinque, il 18%).
Procedendo con l’analisi sulla portata delle attivazioni di contratti nel primo semestre 2021, l’INAPP comunica che, sul totale dei contratti attivati (3,322 milioni), oltre uno su tre (il 35,7%, oltre un milione 187 mila) è part time.
Il dato medio, però, nasconde una dinamica di genere profondamente divergente: se si guarda infatti al complesso delle nuove attivazioni in ottica di genere, si rileva che la metà delle attivazioni al femminile è a tempo ridotto (49,6%), a fronte del 26,6% di quelle al maschile.

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Il part time involontario delle donne
Per circa 6 donne su 10 il part time è una condizione subita, e non una scelta (nel 2020, era così per il 61,2% delle lavoratrici a tempo parziale, con una sensibile variazione rispetto all’età: il part time era infatti involontario per il 72,9% delle 15-34enni, mentre calava al 57% tra quelle over 35).
Nel contesto di questa riflessione, non approfondisco i dati delle dimissioni volontarie delle mamme (o dimissioni indirettamente forzate) nel periodo più critico dell’emergenza Covid (2020): parliamo del 77,4% delle lavoratrici madri, che si sono dimesse per la difficoltà di conciliare la vita professionale con le esigenze di cura dei figli, sia per ragioni legate alla disponibilità dei servizi di cura, sia per ragioni di carattere organizzativo correlate al contesto professionale dei genitori (Dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro).
Asili nido e servizi per la prima infanzia
“Esiste una crescente mole di ricerca che dimostra che l’educazione nella prima infanzia può avere un effetto marcato sugli esiti della vita da adulti: migliori esiti scolastici, occupazionali, economici, miglior salute e benessere, maggior equità socio-economica, minor incidenza di devianza e dipendenza dai sussidi”. […] Inoltre, “la disponibilità di servizi socio-educativi per la prima infanzia favorisce l’occupazione delle madri e questo, a sua volta, riduce il gap salariale di genere”. Inizia così il report della Commissione Europea (gennaio 2022) dedicato alla prima infanzia più recente.
Nel 2022 sono stati compiuti molti progressi per rafforzare e sviluppare la rete dei servizi socio- educativi per la prima infanzia e il sistema integrato zerosei (ex Dlgs 65/2017), il più importante dei quali è rappresentato dalla indicazione di un Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP) da raggiungere gradualmente da qui al 2027, in base a cui almeno 33 bambini di 0-2 anni su 100 dovranno frequentare un asilo nido o un servizio integrativo in ciascun territorio, ossia al livello di Comune o ambito territoriale, pubblico o privato accreditato.
Per avere maggiori informazioni e dati in merito, puoi leggere qui il Report completo.
In conclusione, molti passi avanti sono stati compiuti negli ultimi mesi, ma la strada verso una diffusione capillare dei servizi per la fascia 0-2 anni, accessibili economicamente e che riescano a garantire flessibilità e qualità, è ancora lunga.
La prima cosa da cambiare è la nostra mentalità
Per garantire il riequilibrio nel carico di cura nelle coppie di genitori è importante supportare un forte impegno a livello culturale, anche con iniziative di sensibilizzazione culturale e di educazione rivolte a tutte le generazioni, dagli studenti fino ai vertici aziendali (e politici), ad una visione più moderna e paritaria della condizione femminile e, all’interno di questa, della condizione delle madri.
Cambiare la visione sociale del ruolo materno non è più rinviabile: la maternità non può e non deve essere un ostacolo nel mondo del lavoro, deve essere invece un’occasione di crescita sociale importante per tutti.
Un reale cambiamento culturale permetterebbe a madri e bambini di esercitare realmente i propri diritti e usufruire di asili nido, sostegno genitoriale, servizi sociosanitari adeguati e un ambiente favorevole alla crescita di bambini e bambine, così come sarebbe positivo per i genitori e per il loro percorso professionale e di vita.
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