Il 3 dicembre scorso, in occasione della Giornata internazionale per i diritti delle persone con disabilità, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
“Desidero esprimere attenzione e vicinanza ai nostri concittadini che presentano disabilità, ai loro familiari e a tutti coloro – professionisti e volontari – che se ne occupano quotidianamente con competenza e dedizione. È indubbio che la difficile condizione dovuta alla pandemia sta creando disagi e difficoltà a tutti, anche per via delle necessarie ma dolorose restrizioni nella mobilità e nei contatti sociali. Ma queste diventano un impedimento assai più grave per persone che si trovano già a convivere con difficoltà di movimento o di relazione. Se l’isolamento per le esigenze sanitarie è di per sé una condizione pesante, può diventare un vero dramma se a provarlo sono persone con disabilità fisica o psichica. Penso a chi ha bisogno continuo di assistenza, a chi vive negli istituti, a chi in qualche modo dipende, per la sua esistenza quotidiana, da farmaci, macchinari o dal sostegno di altre persone. Preoccupano le difficoltà e i rischi per ottenere l’assistenza e le cure ordinarie presso i presidi medici e ospedalieri, impegnati faticosamente a fronteggiare l’emergenza Covid. Anche per eliminare queste conseguenze e per tornare a condizioni normali è necessario sconfiggere al più presto il virus, rispettando – malgrado i disagi anche gravi – le norme di comportamento contro il contagio”.
“La disabilità, personale o di un familiare, in molti casi è associata a condizioni precarie di reddito e di occupazione”, ha proseguito il Capo dello Stato.
“L’accesso al mondo del lavoro delle persone con disabilità rappresenta un nodo centrale. Particolarmente delicata è la condizione dei minori con disabilità. La pandemia acuisce la difficoltà di seguire le lezioni scolastiche. E la mancanza di relazioni con i docenti e coetanei, rischia di produrre ulteriori condizioni di emarginazione. La disabilità è spesso, inevitabilmente, legata alla terza e alla quarta età. Questi anziani costituiscono, nella pandemia, una categoria particolarmente a rischio e patiscono molto la solitudine, la mancanza di dirette relazioni con familiari e conoscenti e la fatica nel gestire aspetti concreti della vita quotidiana. L’Italia, in questi ultimi anni, ha compiuto molti passi avanti per temperare gli effetti delle disabilità e per promuovere l’autentico rispetto dei diritti delle persone che le presentano, impegnandosi ad abbattere barriere e ostacoli – fisici e anche culturali – che ne limitano le legittime aspirazioni. L’Unione Europea, nel mese scorso, ha approvato una dichiarazione, impegnativa per gli Stati membri, per costruire insieme un’Europa inclusiva nei confronti delle persone con disabilità. È tuttavia necessario – particolarmente in questa emergenza sanitaria – un impegno ancora maggiore per mantenere e migliorare i livelli di cura, di sostegno e di attenzione. Anche attraverso l’ascolto e il coinvolgimento, in questa preziosa attività, delle associazioni e delle organizzazioni che esprimono la voce delle persone con disabilità. Il livello di civiltà di un popolo e di uno Stato si misura anche dalla capacità di assicurare alle persone con disabilità inclusione, pari opportunità, diritti e partecipazione a tutte le aree della vita pubblica, sociale ed economica”
La geografia della disabilità: i dati Istat
L’Istat ha investito molte risorse sul tema. Dopo anni in cui si limitava a produrre stime in modo discontinuo e disomogeneo, ora sembra aver imboccato la strada verso la raccolta, l’elaborazione e la diffusione dei dati relativi ai disabili in modo sistematico, con la costituzione di un nuovo Registro conforme allo schema formalizzato dalla comunità scientifica nella nuova classificazione internazionale, l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). È tutto documentato nell’audizione del presidente Gian Carlo Blangiardo avvenuta a Roma lo scorso 24 marzo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il quadro di sintesi delle principali informazioni statistiche nel 2019 parla di 3 milioni e 150 mila persone con disabilità che impediscono loro di svolgere attività abituali. Gli anziani sono i più colpiti: quasi 1 milione e mezzo di ultrasettantacinquenni di cui due terzi sono donne (il 5,2% della popolazione). La “geografia della disabilità” vede al primo posto le Isole, con una prevalenza del 6,5%, contro il 4,5% del Nord ovest. Le regioni nelle quali il fenomeno è più diffuso sono l’Umbria e la Sardegna, rispettivamente con il 6,9 e il 7,9% della popolazione. Lombardia e Trentino Alto Adige sono, quelle con la prevalenza più bassa con il 4,1% e il 3,8%. Il 2% delle persone con disabilità vive sola, il 27% con il coniuge, il 16,2% con il coniuge e i figli, il 7,4% con i figli e senza coniuge, circa il 9% con uno o entrambi i genitori, il restante 11% circa in altre tipologie di nucleo familiare. Per quanto riguarda le risorse necessarie alla famiglia per svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale, non sono soltanto economiche, ma anche di tipo relazionale. Di queste famiglie il 32,4%, infatti, riceve sostegno solo da reti informali. Il ventaglio di aiuti assicurato dalla rete comprende assistenza alla persona, accompagnamento e ospitalità, attività domestiche, espletamento di pratiche burocratiche e prestazioni sanitarie.
Politiche di inclusione: partecipazione scolastica e lavoro
Le politiche di inclusione attuate nel corso degli anni hanno anche favorito un progressivo aumento della partecipazione scolastica. Nell’anno scolastico 2019/2020 gli alunni con disabilità che hanno frequentato le scuole italiane sono stati quasi 300 mila. Questi alunni sono stati presi in carico da circa 176 mila insegnanti di sostegno, 1,7 per ogni insegnante. Particolarmente carente è il numero di assistenti all’autonomia e alla comunicazione nel Mezzogiorno. La loro presenza aumenta nelle regioni del Centro e del Nord raggiungendo i livelli più alti nella Provincia Autonoma di Trento, in Lombardia e nelle Marche. Un aspetto critico riguarda la presenza di barriere architettoniche: solamente una scuola su 3 risulta accessibile per gli alunni con disabilità motoria. Inoltre, a causa della pandemia, che ha reso necessaria la didattica a distanza, le opportunità di partecipazione scolastica dei disabili sono state ulteriormente limitate. Tra aprile e giugno 2020 oltre il 23% degli alunni con disabilità (circa 70 mila) non ha preso parte alle lezioni.
Nel mercato del lavoro, malgrado la lungimirante normativa n.68 del 1999 che ha introdotto l’istituto del collocamento mirato, resta rilevante lo svantaggio delle persone con disabilità. Nel 2019, considerando la popolazione tra i 15 e i 64 anni, risulta occupato solo il 32% di coloro che soffrono di limitazioni gravi contro il 59,8% delle persone senza limitazioni.
Il welfare e il sistema di trasferimenti sociali, finalizzati a compensare le minori capacità di reddito, svolgono un ruolo fondamentale. Grazie ai trasferimenti sociali legati alla disabilità, l’incidenza del rischio di povertà tra le famiglie con disabili non supera quello osservato a livello nazionale. Tuttavia non sono sufficienti a garantire condizioni di vita analoghe al resto della popolazione, e ciò a causa dei costi aggiuntivi, di natura medica e sanitaria, indotti proprio dalla disabilità. Il nostro sistema di protezione sociale assegna un ruolo centrale agli Enti locali (Legge quadro n.328 del 2000), in particolare ai Comuni, i quali erogano interventi e servizi finalizzati a garantire l’attività di cura e supporto per l’integrazione sociale. La spesa da loro sostenuta è passata da circa 1 miliardo e 22 milioni di euro nel 2003 a oltre 2 miliardi e 5 milioni nel 2018. Tale crescita è dovuta principalmente all’istituzione del Fondo nazionale per la non autosufficienza. Nell’ambito dei servizi dedicati, fra le principali voci di spesa vi sono i centri diurni (circa 312 milioni) e le strutture residenziali (circa 366 milioni), le quali offrono assistenza ai disabili e supporto alle famiglie o durante il giorno o in modo continuativo. Nel 2018, dei centri diurni comunali si avvalgono oltre 27 mila persone disabili e altre 16 mila e 500 circa beneficiano di contributi comunali per servizi di centri privati convenzionati. Gli utenti delle strutture residenziali sono oltre 30 mila.
Un mondo dunque molto complesso, perché costituito da sottomondi a loro volta pieni di sfaccettature. Per questo ho scelto di approfondirlo ulteriormente dando voce a chi lo affronta quotidianamente in prima linea, persone che hanno trovato la chiave per emergere, malgrado le sofferenze e le problematiche trovate nel susseguirsi degli anni. Ho raccolto le loro testimonianze assieme a alle riflessioni di un medico che fa ricerca in materia.
Betina: la madre brasiliana di Clara Woods
Quando è nata Clara, sembrava dovesse avere un’esistenza vegetativa, invece la prima vittoria l’abbiamo avuta ribaltando la diagnosi clinica. Ha avuto un ictus perinatale che le ha provocato una malformazione molto forte ed estesa al cervello. Carlo, mio marito, nonché padre di Clara, avendo già avuto un’esperienza con la figlia di prime nozze affetta da un’atrofia muscolare spinale, è stato importantissimo. Non si è mai tirato indietro, anche solo a dire può farcela, può fare tutto. I medici avevano detto che non avrebbe potuto camminare, invece cammina, che non avrebbe potuto imitare, invece lo fa tranquillamente, dopo anni d’intenso lavoro sulla psicomotricità e sulla motricità. Poi alle elementari ci siamo resi conto non solo che non poteva parlare ma neanche scrivere e leggere. Le informazioni erano bloccate in uscita, in entrata no, tanto che ora capisce tre lingue. Ci siamo dunque cimentati con la lingua dei segni e così ormai da tempo riesce a comunicare a gesti, ultimamente sta utilizzando anche il tablet. È stata un’impresa. La parola chiave è l’accettazione. Noi abbiamo accettato la diversità, e fino ad adesso non ho mai pensato che Clara fosse disabile. Anzi pretendo che sia come gli altri. Soprattutto agisco, non demordo, anche se le difficoltà le troviamo ovunque, nello svolgimento del quotidiano in famiglia, nelle istituzioni, nella società.
La disabilità è vista come un problema. C’è tanta paura. Paura di non sapere cosa fare, paura di far troppo, di fare poco. Alla resa dei conti non abbiamo avuto una rete di aiuto, ma anche altre famiglie nella nostra condizione non ce l’hanno. Credo che il problema sia il sistema in generale. Siamo lasciati soli. Noi siamo stati benedetti perché lavoravamo già nel settore medico. Carlo aveva un’azienda di carrozzine elettroniche, che ho gestito per 13 anni, e la via ci era già nota anche per le vicissitudini di Eldina, la sua seconda figlia del primo matrimonio. A livello scolastico è mancata comprensione e l’educazione. Clara è stata quasi sempre fuori dalla classe. Alcuni professori non accettavano che lei andasse male nella loro materia. Ho discusso parecchio, addirittura litigato. Poi era esclusa dai compagni. È vero, anche altri giovani lo sono vuoi perché grassi, neri, gialli, purtroppo si sa, ma ci dovrebbe essere un approccio diverso, dato anche dai genitori, nel sensibilizzare i figli di non aver timore della diversità perché in realtà siamo tutti uguali. Qualcosa ha comunque funzionato nel bene e nel male. I primi anni siamo stati seguiti da un’equipe di specialisti, negli ultimi da una psicologa molto brava, che abbiamo però pagato privatamente. Soprattutto siamo riusciti a creare molte relazioni. Tutto dipende da dove si osservano le situazioni. In Brasile non ci avrebbero dato nulla, quindi ben venga ciò che succede in Italia. Ma se prendo il caso di Eldina, che vive da sola in Austria con la SMA2, potrei dire che, rispetto alla sua situazione, il nostro sistema è pessimo. A lei è stata data l’opportunità di far valere chi è. Non è stato detto: “Ah, poverina, non riuscirà!”. Attualmente lavora in un’azienda e gestisce badanti per clienti con disabilità. Ha uno stipendio ed è aiutata anche dal governo.

Un anno e mezzo fa abbiamo scelto di togliere Clara dalla scuola, non ne potevamo più. Siamo stati visti come troppo intraprendenti, perché eravamo usciti dagli schemi. All’epoca abitavamo in centro a Firenze. Ci siamo incanalati nel campo della creatività perché notavamo la sua bravura nella pittura. A poco a poco le è venuto fuori un talento incredibile. Ha avuto modo di raccontarsi con le sue piccole mani da fanciulla. Così siamo riusciti a fare della nostra bambina una ragazzina straordinaria. È stata la prima minorenne ad avere una partita Iva in Italia, aveva solo 12 anni. Oggi ha 15 anni, ha più di 40 mila follower su Instagram, quadri che sono già stati esposti con successo nel nostro paese, a Londra, Kobe e Miami, e opere già quotate sul mercato internazionale. Avevamo un sogno che è diventato realtà. Siamo riusciti a coinvolgere in questo progetto di lavoro e vita anche il fratellino Davi, nato quattro anni dopo Clara, anche lui se ne sente parte, ed è importantissimo. Certo io guido le cose. Ho mollato tutto per lei. Abbiamo venduto l’azienda e iniziato un’altra vita. Da dicembre ci siamo trasferiti a Huntington Beach a 40 minuti da Los Angeles. Abbiamo deciso di partire perché avevamo capito che in Italia è difficile rischiare, c’è troppa burocrazia. Malgrado il trauma iniziale, il mio babbo è mancato per un tumore proprio quando siamo arrivati, stiamo rinascendo. L’America era un altro sogno nel cassetto. Abbiamo trovato una scuola per Clara che ha un programma unico negli Stati Uniti a 5 minuti da casa. È meravigliosa e non costa nulla. Lei è felice di andarci. Mi ha detto: “È la prima volta che mi trovo a mio agio”. Io non devo compilare moduli, andare a riunioni inutili, parlare con la neuropsichiatra. Ho chiesto se avevano un metodo per comunicare con l’iPad e il giorno dopo aveva l’iPad già programmato, così può fare le foto, caricarle, farsi aiutare a scrivere il nome, poi fa da sé, non mi sembra vero. Le classi sono per ragazzi con disabilità. L’inclusione viene fatta attraverso lo sport, la musica e l’arte. Ora fa parte delle cheerleaders. Ha fatto molti progressi a livello di scrittura, di autonomia. È prevista la terapia occupazionale e un iter accademico fino a 22 anni.
Mai vista un’organizzazione del genere. Mi hanno anche passato il nome di una famiglia che ha una ragazza con autismo, siamo già andati a casa loro, abbiamo fatto conoscenza. Ora stiamo creando una routine. Dobbiamo fare tante cose pratiche. Stiamo cercando di organizzarci per far crescere ulteriormente il lavoro di Clara. La mia idea è di creare un brand internazionale, arricchendolo di nuovi prodotti – abbiamo già realizzato una collezione di borse l’anno scorso – cercando di lanciare anche altri artisti con disabilità. Questo sarebbe il nostro sogno più grande. Ebbene, Clara mi ha donato l’emozione di scoprire sempre cose nuove. Pregavo perché lei potesse parlare, leggere, scrivere, lo faccio tuttora. Ma ripensandoci, se fosse successo, non avremmo vissuto tutto questo. Ogni giorno riceviamo tanto amore. A marzo è stato il suo compleanno, ho scritto sui social: “Chi vuole mandare una cartolina?”. È arrivato il mondo qui. Sembra una follia anche a noi. Ma le continue testimonianze che riceviamo confermano che stiamo toccando le persone. Il mio messaggio? Come prima cosa bisogna seguire il cuore e imparare a godere del qui ed ora, senza cadere nel vittimismo e nel pietismo. La seconda è cercare di capire quali sono le possibilità e perseguirle una dopo l’altra. Noi abbiamo fatto così. Non è che dal giorno alla notte siamo arrivati al sole in California. Ci abbiamo messo cinque anni. Clara finalmente ha un ruolo nel mondo, ne siamo felici. Pensare che tutto è nato quando da piccina le ho regalato un libro di Frida Kahlo e lei si è innamorata della sua storia. Dio ci ha aiutato. Ancora mi chiedo: “Ma sarà tutto reale quello che stiamo vivendo?”.
Elena: la mamma di Rebecca Zoe De Luca

Rebecca ha la SMA2, l’atrofia muscolare spinale. Non ha forza muscolare, va imboccata, vestita, spogliata, aiutata ad andare in bagno, ad aprire la porta, qualcuno deve essere sempre con lei. Ha 15 anni, fa la quinta ginnasio al Berchet, a Milano, dove abitiamo, è bravissima a scuola. Scrive per Marie Claire, ha una rubrica su un blog di Rai 2, è ospite fissa nella trasmissione dedicata al mondo della disabilità di Paola Severini Melograni, sempre su Rai 2. Adora leggere, anche perché dice che le apre dei mondi che magari non riuscirà mai a vedere. Cosa per altro non vera, perché è venuta in India con me, siamo andate a New York. È stata non dura, di più. Provate a immaginare se qualcuno vi dicesse senza guardarvi negli occhi: “La malattia di vostra figlia è grave. Non camminerà mai”. Con voi che replicate: “Ci sono cure?”. “No, nulla signora”. Sono partita da qui, nel pieno del successo lavorativo nel mondo del glamour, quando mi occupavo di pr per una casa di moda. Ho continuato a farlo per varie agenzie, da qualche anno mi sono messa in proprio. Ero e sono sempre in giro tra shooting, sfilate, incontri. Luca, mio marito mi disse subito: “Si va avanti”. Ci avevano consigliato di fare un percorso psicologico. Ma in realtà non ne abbiamo avuto bisogno, perché parliamo tanto, ci confrontiamo, litighiamo anche. Evidentemente c’è un profondo amore che ci ha tenuti uniti, abbiamo trovato un equilibrio. Per un figlio si lotta sempre, soprattutto noi mamme, ma anche Luca mi ha sempre detto: “Comunque Rebecca è la numero uno, è imprescindibile questo”.
Per fortuna siamo una famiglia benestante. Ci siamo potuti permettere sempre la fisioterapia, anche se all’inizio dicevano che non sarebbe servita a niente, una carrozzina svedese all’avanguardia che bascula, si alza, si abbassa. Costa ben 25 mila euro: la Asl ne copre solo 8 mila. Abbiamo dovuto mettere a norma l’ascensore del nostro palazzo sborsando 57 mila euro. Abbiamo superato tre polmoniti in tre inverni di fila quando era alle medie. Oggi che si parla di ventilazione, so benissimo cosa è, ho tutto il necessario a casa, e naturalmente sono terrorizzata dal Covid-19. Nel 2017 viene operata alla schiena, le hanno ricostituito la spina dorsale con una placca in titanio: 12 giorni in ospedale, quattro in terapia intensiva. È andato tutto benissimo, da manuale. Quando dovevamo scegliere il liceo prima di andare agli open day, chiamavamo il preside spiegando la nostra situazione. Il primo, quello del Parini, ci parla di inclusione, e quando arriva in aula magna di Martin Luther King. Poi parte il giro della scuola con una professoressa. Lei dice: “Da questa parte”. Io alzo la mano chiedendo: “Mi perdoni, vedo le scale, dove possiamo andare per raggiungervi?”. Lei risponde: “Ah, il problema lo risolviamo dopo”, riferito Rebecca. L’ho fulminata con lo sguardo dicendo: “In questo momento il problema è lei”. A quel punto ho capito che non andava bene per mia figlia. Rebecca è uscita piangendo dicendomi: “Vorrà dire che cambierò corso di studi”. E io: “Noi troveremo il liceo giusto per te”. Andiamo all’open day del Carducci che è dietro casa e l’esordio è un genitore che chiede: “Quali sono i requisiti per fare il liceo classico?”. La professoressa nell’auditorium: “Eh, bisogna essere normodotati”. Mia figlia si gira verso di me con gli occhi sgranati e io le dico: “Tranquilla!”. Dopo aver proseguito col discorso, l’insegnante chiede: “Ci sono domande?”. Io: “La vede quella ragazzina in prima fila? Ecco, mia figlia non è normodotata. Secondo lei può fare il classico?”. “No, ma io non volevo. Sa ho sbagliato”.
Proseguiamo nella ricerca e al Berchet ci aspetta davanti alla scuola il preside. “Signora io sono a disposizione. Noi non abbiamo mai avuto studenti diversamente abili in 150 anni di storia. Però ho visto la pagella di sua figlia, vorrei solo averla qua da noi. Mi dica cosa dobbiamo fare e cercherò di farlo”. Ha avuto il coraggio di dire non ne so niente, mi aiuti lei. Siamo andati in auditorium, Rebecca vede la scuola, se ne innamora. Abbiamo chiamato i tecnici del comune, messo a posto due barriere e abbiamo iniziato. I primi tempo l’insegnante di latino e greco mi telefonava: “Dobbiamo fare il percorso di studi speciale per Rebecca”. “Ma cosa sta dicendo?”, le ho risposto. Dopo due settimane, mi ha richiamato: “Mi scusi, non avevo capito, sua figlia è bravissima”. Quando fa i compiti in classe va in un’aula da sola con l’insegnante di sostegno e detta tutto, la punteggiatura, gli a capo. La sua classe è fantastica. Due anni fa quando hanno iniziato il ginnasio, un gruppetto di ragazzi si sono scritti su Instagram per andare a pranzo insieme, Rebecca ha accettato con gioia. Quando l’ho saputo, ho detto: “Ma qualcuno ti dovrà pure imboccare”. “Non ti preoccupare, troviamo la soluzione”. Non c’è stato nessun problema. Una sua compagna mi ha poi detto: “Non avevo mai capito quanto fosse difficile andare in giro per Milano con qualcuno con la carrozzina e quante barriere architettoniche ci sono”.
Una fortuna della disabilità di Rebecca è che ha un cervello meraviglioso. Da un lato sono spaventata perché mi darà del filo da torcere per tutta la vita, ma al tempo stesso sono contenta perché non si pone limiti. Devo essere sempre sul pezzo, veloce, sveglia e lucida, per ricordarmi delle sue esigenze. Pur con la fatica quotidiana ho cambiato la mia vita in meglio, mi ha portato a non continuare a giudicare gli altri. Finché non si è dentro a questo mondo non si può capire. Non c’è solo un modo per affrontare un problema, ce ne sono tantissimi. Sarebbe bello avere un sistema diverso, tipo Svezia o Danimarca. Durante un evento di un mio cliente al Pitti è arrivato un influencer con la sua stessa patologia da Stoccolma con i suoi due assistenti in aereo. Lo stato se non erro gli garantisce 2000 o 2500 euro al mese. In Italia non ci sono gli investimenti necessari. Chi si trova ad avere figli disabili viene lasciato solo. Ci sono le fondazioni e le associazioni, funzionano è vero, ma è un ghettizzarli. Rebecca percepisce una pensione di invalidità al 100% di 440 euro, ridicolo rispetto alle sue esigenze. Fino a un anno fa c’era un addizionale di 1000 euro della Regione Lombardia, che hanno tolto perché non ci sono soldi. Manca il senso civico. Non è normale che in una città come la nostra, soprattutto dopo tutti i lavori fatti per l’Expo, mia figlia non possa salire sui tram. I limiti non ce li deve porre lo stato, se li deve porre l’essere umano.
Valentina Tomirotti da 38 anni convive con la displasia diastrofica

Io ho una malattia genetica non degenerativa. Questa è già una buona notizia, chiamiamola così, perché ho una prospettiva di vita come quella di una qualsiasi altra persona. E la vita sono riuscita a costruirmela come fa chiunque altro, passando dalla famiglia alla formazione, dal lavoro alla socialità. Vivo con i miei genitori che sono pensionati. Sono figlia unica. Cerco di costruirmi una mia autonomia, al di là degli aspetti quotidiani personali, dove ho bisogno di aiuto nello spostamento dalla carrozzina al wc, nel fare la doccia, nella vestizione. Perché io ho il movimento, nel senso che vivo in carrozzina, non cammino, però le gambe le muovo, ho forza nelle braccia, presa nelle mani. Ho solo le braccia e le gambe più corte. In tutto sono alta 1 metro e 20 centimetri, ho le misure di una bambina. Ma posso farmi da mangiare, guido l’automobile, ho amici, frequento locali, vado agli eventi. Sono laureata in Scienza della Comunicazione e in giornalismo. Faccio l’impiegata amministrativa nel comune di Mantova fino alle 13.30, poi lavoro come freelance. Da un po’ di anni mi occupo di comunicazione digital. Uso i social per fare dell’attivismo consapevole sulla disabilità. Tra virgolette “sfrutto” quello che ho acquisito a livello professionale e personale per ridonarlo, riconvertirlo in una cultura inclusiva. Vado a ragionare sul linguaggio da utilizzare per parlare di disabilità. Vado anche ad analizzare i media su come si stanno comportando. Soprattutto cerco di informare la persona disabile su cosa dovrebbe fare per non trovarsi un giorno con l’acqua alla gola.
Questa situazione del Covid-19, mi ha messo di fronte a un’ennesima verità: che prima o poi rimarrò da sola. Quindi sto prendendo in mano quella che è la legge del dopo di noi. Nel momento in cui non si è autonomi quando si va a fare pipì, come accade a me, può essere che si abbia bisogno di due assistenti familiari che si diano il turno. Il costo di una badante si aggira tra 1300 e 1500 euro. Attualmente col mio lavoro fisso part time prendo 1077 euro. Quello da freelance non è quantificabile, c’è e non c’è. Fortunatamente ho una casa di proprietà adeguata a me, però la devo mantenere, ci sono le spese. A questo punto non posso far altro che bussare ai servizi sociali, comune, piano di zona, azienda sanitaria locale, regione. Al momento sto partecipando a tutte le misure economiche che mi spettano, in base al mio modello Isee socio-sanitario, nel quale rientra solo il soggetto con disabilità, quindi io. Con questo documento e gli eventuali bandi che mettono fuori, mi daranno un valore economico. Nel momento in cui facendo questi passi capisco che quantomeno l’assistente familiare riesco a pagarmelo, posso progettare veramente la mia autonomia, perché allo stato attuale non me la posso permettere. Ma le istituzioni non sono preparate, parlano con i grandi, non con i piccoli. La massa critica non viene ascoltata. A mio avviso, un Ministero dedicato, per altro senza portafoglio, non serve a molto. Piuttosto ci dovrebbe essere un team di funzionari che sappiano qualcosa sul tema della disabilità all’interno di ogni Ministero. Sarebbe opportuno dare un supporto anche ai caregiver, che va ricordato, non sono solo gli assistenti familiari, ma sono anche e specialmente la famiglia del disabile. Il problema vero purtroppo è che, senza distinzione, i media e le istituzioni ci abituano a una narrazione del dolore del disabile senza contemplare quella della quotidianità e della praticità.
Jader Tolja, medico e ricercatore, autore con Divna Slavec de La malattia sana, pubblicato da Tea Libri.

Prima di parlare della funzionalità del corpo è imprescindibile fare una premessa sul concetto di malattia. Mi spiego con un esempio. Se ci svegliamo una mattina con delle bolle sul palmo della mano e non ne sappiamo il perché, ci percepiamo come malati. Se invece ci ricordiamo che il giorno prima abbiamo giocato a tennis non ci sentiamo affatto tali. La differenza fra ciò che consideriamo malattia e funzionamento normale non dipende quindi da ciò che succede, ma da come interpretiamo ciò che succede. Lo stesso principio vale nei confronti degli handicap. Come diceva Jung, “la gente giudica perché pensare è più difficile”: ebbene, quanta varietà e diversità di modi di essere riesco a considerare fisiologica prima che la mia mente vada in crisi e si metta a giudicare ed etichettare come giusto o sbagliato il processo in corso in base alla sua capacità di capirlo o meno? Questo giudizio dipende soprattutto dalla prospettiva che si mette in atto. Ovvero se la nostra percezione si focalizza su ciò che non si può fare o se, al contrario, si è in grado di percepire quali orizzonti inaspettati si aprono proprio per il fatto di non poter fare ciò che si fa di solito, nel modo in cui lo si fa di solito.
Lo abbiamo sperimentato tutti di recente durante la pandemia. Ci sono state persone che si sono focalizzate su quello che non potevano più fare – e quindi si sono impantanate in una dinamica di lamento e recriminazione – e altre che, nella medesima situazione, si sono invece chieste quali erano le cose che – proprio in virtù di quelle stesse particolari condizioni mai verificatesi prima – avrebbero potuto fare e che in condizioni normali non sarebbe stato possibile. In questo modo hanno scoperto nuovi modi di essere, stili di vita diversi, percezioni e attività che altrimenti non avrebbero mai potuto esplorare.
Il fatto che ogni volta che viene limitata una funzione, allo stesso tempo si creino le condizioni perché se ne possa avvantaggiare un’altra è un meccanismo molto usato ad esempio nello sport. Se si vuole che un nuotatore sviluppi maggiormente la forza delle braccia, gli si impedisce il movimento delle gambe. Se invece si vuole sviluppare di più quella delle gambe, si impedisce il movimento delle braccia. Perché meglio funziona una parte, meno opportunità di svilupparsi hanno tutte le altre. Per esempio più la vista è perfetta, più si presta a monopolizzare la nostra percezione e diventare penalizzante per gli altri sensi. Il motivo per cui ci sono molte persone che pur avendo più di 3 diottrie di deficit, preferiscono non usare gli occhiali se non per guidare, è proprio per lasciare più spazio ad altre forme di percezione. Come ad esempio la propriocezione, cioè la percezione del corpo dall’interno, un senso più vicino al percepire la sostanza delle cose rispetto alla vista, e che è molto più chiara e intensa ad occhi chiusi.
Ciò che trovo particolarmente interessante è che l’attitudine più funzionale con cui porsi di fronte a una limitazione di qualsiasi genere, cioè lo spostare l’attenzione dalle funzioni perse a quelle che da tale perdita hanno tratto vantaggio, in fondo sia la stessa, indipendentemente dal fatto che si pensi che tale limitazione venga operata dal caso, – come in una visione meccanicistica della realtà -, da una scelta consapevole – come nell’esempio delle strategie citate in campo sportivo -, oppure dal destino – come nelle visioni dell’esistenza che contemplano una sorta di organicità della vita che va oltre la casualità -.
La convinzione che dietro l’esistenza ci sia una certa organicità gestita da una qualche intelligenza profonda, è comune anche tra figure professionali non certo assimilabili al movimento new age, come ad esempio Albert Einstein, che nella sua risposta al fisico tedesco Max Born affermava “Sono convinto che Dio non giochi a dadi con l’universo”, o lo psicoanalista e saggista James Hillman, che nel suo Il codice dell’anima, prende in esame una serie di biografie poco spiegabili se viste in un’ottica classica di causa effetto. Tra le vite delle persone descritte per argomentare le sue tesi, c’è ad esempio quella di Helen Keller, una figura molto conosciuta nella cultura anglosassone. Cieca e sorda dall’età di 19 mesi per un’infezione non meglio identificata, ha avuto una vita professionale molto prolifica sia come scrittrice che soprattutto come attivista sociale e politica, che in America ha portato a cambiamenti significativi sia delle condizioni e diritti delle persone con disabilità, sia nel modo queste venivano percepite.
La vita sembra servirsi di ogni sorta di impedimento per riuscire a dar forma alla particolarità che caratterizza ogni individuo e per dare originalità e senso alla sua esistenza. Siamo diversi soprattutto per le diverse capacità che, proprio in virtù delle nostre vicissitudini, abbiamo sviluppato. Prive di tali impedimenti le nostre esistenze finirebbero per essere repliche tutte uguali. Che ce ne rendiamo conto o meno, se siamo quel che siamo è proprio grazie al fatto di essere in qualche misura tutti diversamente abili.
La diversità non è semplicemente qualcosa da rispettare: è soprattutto il più efficace propellente del cambiamento. Così come i grandi salti a livello culturale accadono nelle situazioni di melting pot di culture, esperienze, competenze, discipline e specializzazioni – si pensi alla Vienna di inizio secolo – qualcosa di analogo succede anche in ambito familiare o scolastico: la diversità esalta sia il potenziale evolutivo del sistema che dei singoli. Un esempio emblematico è il cambiamento a cui vanno incontro i familiari dei bambini down, ben esemplificato anche recentemente da libri che hanno avuto un discreto successo. A ben vedere il principale handicap di fondo dell’uomo contemporaneo è l’incapacità di stare nel presente. Questi bambini invece, essendo liberi dal pesante condizionamento del pensiero corticale, perdono sì delle facoltà, come la capacità di elaborazione di pensiero astratta, di memoria del passato o di proiettarsi nel futuro, ma ciò amplifica notevolmente la loro capacità di essere nel presente. Sono caratterizzati da un’emotività commovente e da un’autenticità disarmante. Sono limpidi, sinceri, diretti, tutt’uno coi loro sentimenti ed emozioni, totalmente nel qui e ora. Per questo in India, dove evidentemente l’accento non è posto sulle mancanze, ma sulle capacità, vengono considerati divinità. Che illuminano con queste loro qualità la vita di chi è in grado di riconoscerle e apprezzarle.
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