I social network aiutano le conversazioni e facilitano le relazioni, ma possono anche trasformarsi in luoghi di violenti scontri verbali tra fazioni opposte.
Nelle ultime settimane, dopo il riaccendersi del conflitto tra Israele e Hamas, un gruppo di persone si è ritrovato su Clubhouse, il nuovo social network basato solo su chat vocali, per confrontarsi su questo argomento. Clubhouse è un social solo audio dove è possibile vedere le foto dei relatori e le loro brevi bio. Ma questo è tutto. Chi entra può solo ascoltare oppure alzare la mano e parlare.
La chat vocale “Meet Palestinians and Israelis” è nata all’interno di “Balance”, club gestito da Moshe Markovich. La chiacchierata, iniziata come una conversazione tra amici, si è trasformata in una conversazione no stop andata avanti per oltre una settimana, giorno e notte.
La storia di questa lunga chat vocale arriva dal magazine Slate ed è stata inserita nello Story Tracker del Solutions Journalism Network.
Attualmente, la conversazione raccontata da Slate è terminata, ma nuove chat vocali su questo di confronto sono nate all’interno del Club “The Peace Game” fondato da un palestinese di Hebron e un israeliano di Tel Aviv.
Come si può gestire un confronto sui social tra israeliani e palestinesi?
L’autrice del pezzo pubblicato su Slate, Dahlia Lithwick, racconta che il 21 maggio la room “Meet Palestinians and Israelis” trasmetteva ininterrottamente già da 5 giorni. Come mostrano le statistiche di Clubhouse del 18 maggio 2021 nel periodo degli scontri erano sintonizzate fino a 1400 persone e nella settimana dal 18 al 23 maggio hanno partecipato oltre 286 mila persone. Vista l’affluenza e l’interesse non è stato semplice controllare tutto. I moderatori hanno organizzato turni di notte per verificare che i toni fossero sempre pacati e non si creassero fazioni e polarizzazioni. Questo è stato possibile soprattutto incoraggiando israeliani e palestinesi a raccontare le loro storie personali senza entrare nel discorso politico.
Storie di paure e sofferenze condivise
Una donna di Gaza ha raccontato che il suo bambino, terrorizzato, si aggrappava a lei durante gli attacchi. Un’israeliana ha ricordato i genitori uccisi in un attacco terroristico anni fa rientrando da una festa di compleanno. E ancora: un’americana di origine palestinese ha descritto tutta la difficoltà dei suoi viaggi per visitare la famiglia in Palestina, i diversi checkpoint e le perquisizioni. Un’ebrea egiziana è stata costretta a lasciare l’Egitto da bambina e trasferirsi in Inghilterra ripartendo da zero. E un palestinese l’ha ringraziata per il suo racconto. Infine, un palestinese e un ebreo, entrambi di Brooklyn, dopo una conversazione si son resi conto di vivere a pochi metri di distanza.
Le storie avevano accenti diversi e bandiere diverse, ma il dolore, la paura e la rabbia erano le stesse. I moderatori hanno chiesto ai partecipanti di non mettere a confronto la sofferenza e incoraggiavano le domande. Il tono degli interrogativi era molto vario: “Hamas rappresenta le tue opinioni?” “Perché la mia famiglia non può tornare a Gerusalemme?”, “Come si può raccontare ai figli quello che sta succedendo?”. Proprio in occasione di questa domanda molti hanno sostituito le foto del profilo con quelle della loro infanzia. “I miei figli stanno ascoltando“, ha detto una donna. “Le tue parole sono di conforto per loro…”.
Il limite delle parole forti, che scuotono, accendono gli animi
Come hanno spiegato i moderatori a Slate, non è stato sempre facile mantenere toni equilibrati e pacati. Più volte, almeno ogni ora, è stata pronunciata una parola sbagliata che ha acceso la polemica. In questo caso i responsabili della stanza vocale sono subito intervenuti per spiegare perché quelle erano sbagliate e hanno riportato la conversazione su toni meno polemici. Uno dei partecipanti ha osservato che questa chat room è il negoziato di pace con più affluenza e partecipazione dai tempi dei difficili negoziati di Oslo del 1993.
Il ruolo dei moderatori
La stanza, spiega Dahlia Lithwick su Slate, è stata moderata da un team di Paesi e religioni diverse. Oltre a israeliani e palestinesi erano presenti anche persone “neutrali” con il compito di interrompere e intervenire quando gli animi e le parole si accendevano. La giornalista di Slate ha incontrato uno di loro, Hamza Khan.
Khan non è palestinese né israeliano. È un attivista pacifista musulmano americano che lavora da anni con palestinesi e israeliani. “Ricordare a tutti che un trauma come questo non appartiene a nessuna narrativa specifica e a nessun partito è la chiave per aiutare a mantenere le conversazioni costruttive”, dice Khan alla giornalista di Slate. “Ma deve essere fatto nel modo più giusto e con tatto, rispettando le dinamiche culturali delle diverse comunità che vogliamo far dialogare”.
Il piano originale prevedeva di chiudere la stanza dopo il cessate il fuoco ma è stata presa la decisione di andare avanti. La conversazione è andata avanti per molti giorni. “Questo evento si è rivelato un momento storico di conversazioni empatiche e scambi personali e intimi. Ora vogliamo continuare a gestire questa stanza fino a quando non ci sarà la pace”, ha spiegato Khan.
Durante la conversazione, i moderatori hanno chiesto al pubblico di lampeggiare i microfoni se le loro opinioni fossero cambiate ascoltando voci diverse. Molti si sono accesi, quelle conversazioni avevano un impatto su di loro, avevano stimolato un cambiamento.
“Il fatto che in questa vicenda senza via di uscita esista un luogo in cui due parti possano ascoltarsi sembra un miracolo della tecnologia moderna ma anche un’arte antica, quasi perduta” conclude la giornalista Dahlia Lithwick.