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Cercasi tempo AIntelligentemente

Giu 12, 2023
cercasi tempo

Quanti giornalisti sono come il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie? Quanti si sentono perennemente con l’acqua alla gola? Quanti venderebbero un rene pur di avere qualche minuto in più?

All’interno della nostra professione, sia per i freelance sia per coloro che lavorano in redazione, il tempo è una variabile estremamente delicata, per non dire impazzita. Viviamo in un’epoca in cui la produzione e il profitto rivestono un ruolo fondamentale per l’ecosistema informativo, per cui il tempo è spesso una costante violenta e disumana del nostro lavoro. E ciò implica, purtroppo, che il servizio giornalistico fatto a lettori, spettatori, ascoltatori o utenti web non sia sempre buono.

Come professionisti dell’informazione, consumiamo il mestiere in modo bulimico, a bocconi inconsapevoli, sospinti dalla quantità – più che dalla qualità – dei contenuti che elaboriamo. Non abbiamo, a volte, l’impressione che si pensi soltanto a produrre, indipendentemente dal “cosa” si produce e dal “come” si produce? Forse, il vero problema dell’attuale crisi dell’attività giornalistica, crisi di ruolo e anche occupazionale, è connesso al fatto che, a causa dell’incalzante ritmo con cui le notizie vengono prodotte, aggiornate e consumate, il processo informativo si è tramutato in una catena di montaggio, dove si lavora 24 ore al giorno senza avere, ahinoi, il tempo per pensare.

Benvenuti nell’ipertempo

Siamo immersi in quella che il filosofo belga Pascal Chabot ha chiamato, in un suo recente saggio di cronosofia, “era dell’ipertempo”. Questo studioso, occupandosi del fenomeno del burn out nel mondo professionale, si è accorto che la principale sofferenza psicologica dei nostri ambienti di lavoro – non solo quelli giornalistici – è provocata dallo scontro tra regimi di tempo tra loro incompatibili: i tempi “umani” e l’ipertempo, a suo parere favorito dalle attuali tecnologie digitali.

Quest’ultimo tempo è quello della dittatura del presente che quasi stordisce, dell’imperativo ad agire ora e subito, della reazione immediata che fagocita la decisione. È un’accelerazione della nostra quotidianità che lascia inevitabilmente da parte la riflessione, perché più lenta. Lavoriamo in quello che gli antichi Greci definivano kronos, il tempo cronologico e sequenziale (quantitativo), mentre non riusciamo, presi dall’incessante ansia delle scadenze, ad acciuffare per i capelli kairos, il tempo di durata indeterminata nel quale qualcosa di speciale può accadere (qualitativo).

Credo, però, che le tecnologie digitali, in particolare le intelligenze artificiali generative (generative Artificial Intelligence), possano diventare le nostre principali alleate nel processo di lavorazione delle notizie, per riprenderci il tempo, soprattutto quello di qualità, che ora ci sfugge e ci fa soffrire.

L’alleanza con le AI

Non penso che gli strumenti di intelligenza artificiale generativa come ChatGPT, Midjourney & Co., debbano produrre articoli, immagini o video, al posto nostro, perché i contenuti giornalistici generati dalle AI mancano di un appropriato studio del contesto, non vanno quasi mai in profondità, sono privi di una cifra stilistica originale, presentano una struttura ripetitiva e assai poco coinvolgente. Inoltre, le intelligenze artificiali possono inventare le risposte di sana pianta, quando non sanno cosa (cavolo) replicare, commettere gravi errori di valutazione, tralasciare aspetti che per un umano sarebbero rilevanti, cambiare involontariamente senso ai fatti, plagiare le parole, i pensieri, le immagini e l’autorialità di qualcun altro, violando così il copyright.

E dal punto di vista etico? Al di là della difficile questione della raccolta, gestione, interpretazione e utilizzo dei dati che noi utenti forniamo loro, le AI possono perpetuare dei bias cognitivi, ridurre il reale a una manciata di dannosi stereotipi e favorire discriminazioni basate su fattori come razza, genere o orientamento sessuale. Insomma: sono strumenti in grado di fornire degli input, delle indicazioni iniziali, che sta poi a noi, giornalisti, verificare con attenzione, secondo i più alti standard professionali, risalendo alle fonti originarie e ai criteri deontologici della nostra professione.

Tuttavia, è possibile chiedere agli strumenti di intelligenza artificiale generativa di affiancarci, come assistenti, nello svolgimento delle attività più meccaniche e di routine del newsmaking. Per esempio: fare ricerche d’archivio, trascrivere il testo di interviste telefoniche, riassumere pagine e pagine di documenti, mettere insieme fonti e dati diversi, creare mappe mentali, suggerire idee di titoli, di post o di storie in una sorta di artificial brainstorming.

Per quanto riguarda la parte iconografica dei testi giornalistici, ritengo che si possa chiedere l’aiuto delle intelligenze artificiali solo per produrre immagini che illustrino concetti astratti, esplicitando che la macchina ne è l’autrice, ma non per generare immagini che presentano contenuti fotorealistici. È pur vero che tutta la cultura visiva (e non solo) è una presa in prestito e un remix del lavoro altrui, ma la generazione di immagini consentita dalle AI sta destando serie preoccupazioni attorno alla creatività naturale e al diritto d’autore, pertanto occorre governare il confronto con l’arte (?) prodotta dalla tecnologia e non farsene governare.

Cosa faremo del tempo in più?

Nell’attesa che si diffonda una adeguata consapevolezza all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella copertura giornalistica di fatti e fenomeni, possiamo, dunque, subappaltare alle macchine le occupazioni a minor valore aggiunto, mantenendocidoverosamente circospetti e senza cadere nell’equivoco che questi strumenti efficienti siano anche “intelligenti”, ossia in grado di comprendere e controllare ricerche, fonti, dati, documenti, immagini o idee. Non solo non sono in grado di capire i contenuti che generano, ma non sono nemmeno in grado di capire il pubblico cui quel contenuto è destinato.

E, ora, eccoci alla domanda spinosa: come impiegheremo il tempo che, nel prossimo futuro, la tecnologia libererà? Auspico che potremo concentrare le nostre energie sulle attività a maggiore valore aggiunto che, per me, sono studiare, riflettere, comprendere, immaginare. E possibilmente non da soli, ma insieme ai colleghi, agli editori e, soprattutto, a chi ci legge, guarda o ascolta.


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Mariagrazia Villa
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