Sono definite molestie di strada perché avvengono all’interno di spazi pubblici, ma non si verificano esclusivamente all’aperto; sono indicate anche con il termine street harassment o, più comunemente, catcalling. Si tratta di vere e proprie molestie verbali, che si manifestano con fischi, apprezzamenti più o meno volgari, gesti indesiderati, ma anche battute a sfondo sessuale e offese sull’aspetto fisico. Nei casi più gravi possono sfociare in episodi di stalking, aggressioni fisiche e abusi sessuali.
Le ripercussioni di questa forma di violenza, perché di questo si tratta, possono influire sulla psiche, con l’insorgere di paura, insicurezza costante, umiliazione, rabbia e la tendenza a colpevolizzarsi. Non è esente la sfera fisica, con vertigini, tensioni muscolari e altri stati di malessere generale, che porta inevitabilmente a una riduzione della qualità della vita.
Secondo un recente articolo dell’organizzazione no-profit Stop Street Harassment le azioni e commenti di connotazione sessuale sono più frequenti, ma si manifestano anche con insulti omofobi o altre offese che riguardano etnia, religione, classe sociale o disabilità.
La parola alle statistiche
Nel 2005 l’ONG americana Hollaback, in collaborazione con la Cornell University, ha condotto una ricerca di portata internazionale, per individuare l’età media in cui si subisce la prima molestia di strada e le conseguenze di questo fenomeno sulle vittime.
Su circa 16mila donne intervistate, l’84% ha subito violenza prima dei 17 anni, quindi in età preadolescenziale, con gravi ripercussioni sulla crescita e sullo sviluppo emotivo della persona. È emerso che a seguito di questi episodi sono frequenti anche cambiamenti comportamentali nelle vittime. Spesso si tende a sottovalutare non solo il fenomeno, ma anche le conseguenze, che invece possono essere devastanti. Secondo questo studio, l’Italia ha registrato la percentuale più alta di donne che dopo la violenza ha scelto di cambiare strada per tornare a casa. Sempre nel nostro Paese, quasi una donna su dieci ha tardato o si è assentata dal posto di lavoro a seguito di questi episodi. Questi i dati Istat del 2018: in Italia il 15,9% delle donne è stato vittima di molestie con contatto fisico indesiderato, contro il 3,6% degli uomini. Ancora, il 36,6% delle donne ha paura e addirittura rinuncia ad uscire a uscire di sera, contro l’’8,5% degli uomini, e il 35,3% non si sente sicuro.
Che cosa può fare la legge?
In alcuni Paesi le molestie di strada sono considerate reato: in Perù, ad esempio, dal 2015 è prevista una condanna fino a 12 anni di carcere per chi fa catcalling, la Francia dal 2018 punisce questi comportamenti con multe che arrivano fino a 750 euro e nelle Filippine la pena, a seconda della gravità della molestia, può essere il carcere o multe. Anche l’Argentina ha proposto una legge che punisca le molestie di strada con una pena pecuniaria e negli Stati Uniti le leggi ad esse relative dipendono dalla giurisdizione dei singoli stati. Venendo alla nostra nazione, l’Italia non ha ancora una norma di legge che punisca il catcalling.
Ciò che più vi si avvicina è l’art. 660 del Codice Penale, che disciplina la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone. Nello specifico, punisce chi «in un luogo pubblico o aperto al pubblico, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno disturbo o molestia» e prevede come pena l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a €.516,00. Per essere considerato perseguibile penalmente, questo comportamento deve caratterizzarsi «da insistenza eccessiva, invadenza e intromissione continua e pressante nell’altrui sfera di quiete e libertà». Tuttavia, ciò che differenzia il catcalling dal reato di molestie o di disturbo alle persone «è il bene giuridico protetto dalla norma: tradizionalmente, si ritiene che questo crimine intenda punire il turbamento alla pubblica tranquillità e non la dignità della persona offesa molestata. reato in questione è procedibile d’ufficio e, pertanto, denunciabile da chiunque, non solo dalla vittima», ci spiega lo Studio cataldi.
Dunque, la molestia o disturbo alle persone è definibile come tale non quando lede la dignità della vittima, quanto a turbare l’ordine pubblico. Così, l’interesse del singolo ha una protezione che è soltanto di riflesso.
Inoltre, non è possibile inquadrare il catcalling nell’articolo 612-bis del Codice Penale, che si riferisce al reato di stalking: infatti, quest’ultimo si verifica in presenza di molestie ripetute in breve tempo e provoca nella vittima la sensazione di essere perseguitata, generalmente da qualcuno che già di conosce; viceversa, il catcalling generalmente è episodico, messo in atto sempre da estranei e non è reiterato nel tempo ad opera degli stessi soggetti.
Come reagire? Risponde il Metodo Stand Up
L’Oréal Paris e l’ONG americana Hollaback! hanno sviluppato uno strumento concreto per intervenire attivamente sia da testimoni di violenza sia quando si è vittime. Si chiama Metodo Stand Up ed è un programma di formazione gratuito online, che è arrivato anche in Italia e qui ha trovato il sostegno dell’Associazione Alice Onlus, del Corriere della Sera e la 27esima Ora.
Ha l’obiettivo di creare consapevolezza, per far capire che ciascuno di noi può fare qualcosa contro il catcalling. Dai dati emerge che le percentuali di chi prende posizione attivamente sono incredibilmente basse, a causa dell’effetto testimone, che paralizza davanti a una scena di violenza e spinge a non intervenire, generalmente per paura e istinto di tutelarsi. Si chiama anche Sindrome Genovese, dal femminicidio di Kitty Genovese, accoltellata in strada nel 1964 negli Stati Uniti, nell’indifferenza assoluta di decine di testimoni. Perché nessuno intervenne? La psicologia sociale ha risposto così: se in una situazione di pericolo sono presenti tante persone, ciascuno di noi tenderà a tutelarsi e a pensare che qualcuno porterà aiuto al posto suo; così facendo agisce anche per emulazione e non interviene se nessuno lo sta già facendo.
Il Metodo Sand Up fornisce 5 semplici D, che diventano una “cassetta degli attrezzi” per essere testimoni attivi e 3 azioni per reagire.
- Distrarre: l’obiettivo è distogliere l’attenzione dalla violenza e, così facendo, interromperla anche per pochi secondi. Come? Ad esempio facendo cadere un oggetto nelle vicinanze o, quando è possibile, attirando l’attenzione delle persone coinvolte con un pretesto, ad esempio per chiedere indicazioni stradali. Anche un’azione semplice permette di creare un diversivo e uno spaccato temporale che permetta alla persona che sta subendo violenza di reagire, provando ad allontanarsi fisicamente o chiedere aiuto.
- Delegare: permette di non intervenire da soli, ma creare una rete e cercare qualcuno che porti aiuto con noi o per noi. A seconda delle circostanze, si può trattare di altre persone presenti nelle vicinanze o delle autorità competenti, come polizia e carabinieri. Tuttavia, prima di chiedere l’intervento delle Forze dell’Ordine è sempre meglio, solo se possibile, chiedere l’autorizzazione di chi subisce violenza. Infatti, la persona coinvolta potrebbe anche decidere di non essere presente in caso di intervento delle autorità per evitare ulteriori difficoltà a breve o a lungo termine, che potrebbero derivare dal contatto con il maltrattante.
- Documentare: permette di creare una testimonianza della violenza, nel caso in cui la vittima volesse sporgere denuncia. È importante che la documentazione raccolta sia consegnata a chi ha subito molestia, poiché dev’essere la persona direttamente coinvolta a decidere se utilizzarla. La testimonianza può essere video o audio, ma anche una descrizione dettagliata per iscritto di come si sono svolti i fatti, corredata di particolari su persone e luoghi. C’è un aspetto da non sottovalutare: secondo le leggi italiane sulla privacy, non è possibile divulgare materiale che ritragga in volto le persone coinvolte senza il loro consenso. La diffusione al pubblico è punibile penalmente; a maggior ragione, in questa circostanza le testimonianze devono entrare solo in possesso della vittima.
- Dare sostegno: è la modalità meno diretta, ma è quella che serve di più per ridurre gli effetti psicologici della violenza. In questo modo la persona che subisce molestia non si sente sola e percepisce che qualcuno si occupa di lei. Andare in aiuto non vuol dire solo supportare la vittima fisicamente ed emotivamente, ma può significare anche fare una segnalazione.
- Dire: implica che si intervenga con le parole per interrompere la violenza. È una delle modalità più rischiose e difficili da gestire, poiché non si deve peggiorare la situazione né per noi stessi né per la vittima. È fondamentale ricordare che l’obiettivo di questo intervento è dare aiuto a chi sta subendo la violenza, non interagire con chi la fa: il rischio è essere coinvolti dai maltrattanti, anche con uno scontro fisico. Pertanto, è bene valutare prima tutti i pericoli in cui si potrebbe incorrere ed è sempre consigliabile cercare aiuti all’esterno.
Un aiuto se capita a noi
Il Metodo Stand Up individua 3 azioni per reagire alla violenza:
- Ascoltare il proprio istinto: se la situazione intorno a noi è percepita come pericolosa, per prima cosa è necessario avere consapevolezza di poterne uscire e tornare ad avere pieno controllo. È fondamentale ascoltare le sensazioni e agire attivamente per liberarsi, sia fisicamente sia emotivamente.
- Riacquistare spazio di sicurezza, fisico o psicologico: il primo passo per riappropriarsi del proprio spazio è mettere una distanza, anche fisica se necessario. Allontanarsi o allontanare la persona che ci crea disagio è un diritto che dev’essere esercitato, anche chiedendo aiuto. Non sempre la violenza che si subisce è fisica: in questo caso è fondamentale allontanarsi anche emotivamente dalla fonte di malessere, se necessario anche con un sostegno psicologico.
- Riacquistare resilienza: lasciare spazio a ciò che dà benessere abbassa i livelli di tensione dovuti al trauma e aiuta a risollevarsi emotivamente. Non isolarsi è importante, perché permettere agli altri di aiutarci, per molte persone anche la musica può essere un ottimo aiuto.
Gli strumenti a cui ricorrere sono estremamente soggettivi, ma in ogni caso è fondamentale liberarsi del senso di colpa che potrebbe insorgere, se siamo vittime, perché la responsabilità della violenza non è mai di chi la subisce.
Il Metodo Stand Up nel dettaglio
Osserviamo il progetto ancora più da vicino, con l’aiuto di Cristina Obber, scrittrice e giornalista esperta in violenza di genere e della Dott.ssa Valentina Tollardo, psicologa psicoterapeuta – Vice presidente Alice Onlus.
Da quando è partito il progetto, che risposta avete ricevuto dal pubblico?
Cristina Obber: Eravamo certe che in Italia il progetto sarebbe stato accolto con grande favore poiché c’è sempre più sensibilità e attenzione a tutte le forme di violenza contro le donne, e c’è grande risveglio dell’attivismo giovanile. Non è un caso che grande adesione ci sia stata da parte di collettivi e associazioni universitarie. In ambito universitario abbiamo apprezzato anche l’attenzione di alcune professoresse che hanno coinvolto i loro atenei. Ma a Stand Up stanno partecipando enti, come il Comune di Milano, tra i primi ad aderire insieme all’azienda dei trasporti ATM e aziende private che hanno coinvolto i dipendenti durante l’orario di lavoro, un segnale importante di come il mondo imprenditoriale si ponga in ottica di prevenzione e attenzione ai temi sociali. E poi cittadine e cittadini singoli, da tutta l’Italia, e il mondo dell’associazionismo, sia territoriale che nazionale, con una trasversalità interessante sia intergenerazionale che per campo di impegno sociale. Interessante anche la partecipazione di associazioni di donne che fanno impresa e si occupano di pari opportunità. Insomma una risposta che ci conferma quanto il tema delle molestie nei luoghi pubblici sia sentito e quanto siamo un paese di persone propositive che hanno desiderio di condividere e collaborare per rendere i nostri spazi luoghi più rispettosi in cui muoversi in libertà.
Quali risultati avete ottenuto fino ad oggi?
Valentina Tollardo: In un progetto di questo tipo si inizia a parlare di risultati anche solo per la risposta del pubblico che dopo la formazione promuove a sua volta il progetto ad altri, creando un’onda comunicativa che si sta rilevando molto efficace.
In Italia le molestie sono un fenomeno complesso e sfaccettato che si inserisce in un contesto culturale in cui spesso tali comportamenti (es. il catcalling) vengono sottostimati e accettati. Con Stand up le molestie sono diventate un argomento di cui parlare e da problematizzare e su cui iniziare a costruire una nuova cultura. Per noi questo è importantissimo. La violenza parte dalle parole, quelle che si scelgono per definire l’altro con un’etichetta, quelle che oggettivizzano l’altro e che non tengono in considerazione la complessità della nostra vita emotiva.
Avete ricevuto anche consigli per migliorare la fruizione del progetto?
Valentina Tollardo: Molte persone ci stanno chiedendo di estendere il progetto alla fascia 14-17 anni, età in cui statisticamente avvengono le prime molestie. Questa richiesta è in linea con i nostri pensieri e con i nostri desideri. Ci vorrà tempo perché per i minori occorre fare un adattamento della formazione che risponda ai bisogni specifici della fascia d’età e… molto altro.
Quali sono i punti di forza di ciascuna delle “5 D” su cui si struttura il metodo?
Cristina Obber: Direi che il punto di forza del metodo delle 5 D è che ognuna di loro, di fronte a una qualsiasi forma di molestia, ci offre un’alternativa al non fare nulla, a quel “Non so cosa fare” che emerge ad inizio webinar tra le motivazioni per cui non si interviene e che lentamente, acquisendo padronanza del metodo, si tramuta in una possibilità di reazione/azione, sempre mantenendo al centro la necessità di agire in sicurezza. L’altro punto di forza è sicuramente quel senso di alleanza tra esseri umani a cui ogni D si ispira e che il metodo è in grado di stimolare.
Il progetto indica, nel caso in cui non siamo testimoni ma vittime, tre possibili azioni. Quali sono i risvolti positivi di ciascuna?
Valentina Tollardo: Quando subiamo una molestia l’impatto emotivo dipende da infiniti fattori, così come le risorse disponibili al momento per reagire. La nostra parola d’ordine è sicurezza. Queste tre azioni possono essere facilmente ricordate anche nel momento in cui siamo sottoposti allo stress emotivo del subire una molestia. Ricordarsi che non esiste una risposta buona e giusta per reagire ad una molestia ma una risposta personale e legata alla situazione e al tipo di evento, aiuta anche a diminuire il senso di colpa del “poter fare di più.
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