L’8 marzo non è la “festa” della donna. Saremo omaggiate di fiori e cioccolatini e, molte di noi, si concederanno una “libera uscita”. Ma il senso di questa giornata non è festeggiare il genere femminile, considerato che ce la passiamo ancora piuttosto male. Forse non sulla carta, a livello di leggi e di diritti, ma sicuramente nelle relazioni di tutti i giorni, dove persino il rispetto è merce rara.
Ecco i dati: su oltre 2mila lavoratori uomini (dipendenti e autonomi), il 43% ritiene che la violenza sulle donne sia un fenomeno che non lo riguardi, mentre il 73% ritiene che gli uomini nel proprio contesto professionale abbiano maggiori possibilità di carriera rispetto alle donne.
Situazione che non migliora nella vita familiare e nella genitorialità: il 36% dei padri dichiara di non aver mai usato gli strumenti aziendali a disposizione per occuparsi dei figli, come per esempio i congedi parentali.
“I risultati indicano che la parità di genere, sia nel contesto professionale sia in quello familiare, è lontana dall’essere raggiunta e che anche il racconto e le esperienze degli uomini rilevano disparità più o meno consapevoli”, spiega Annalisa Valsasina, direttrice scientifica di Fondazione Libellula, che ha realizzato la ricerca LUI (Lavoro, Uomini, Inclusione).
Riflettiamo sulla parola “festa”
Tornando alla scorrettezza dell’uso del termine “Festa” per indicare l’8 marzo, ho intervistato Tiziana Montalbano, che si occupa della comunicazione di Parole O_Stili, un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole, con l’obiettivo di responsabilizzare ed educare gli utenti della Rete a scegliere forme di comunicazione non ostile.
Perché non è appropriato parlare di Festa della donna?
Non è appropriato parlare di Festa della donna perché appunto non è una festa, ma è una giornata di ricordo e di riflessione. Con fatica le donne hanno acquisito nel corso dei secoli dei diritti basilari, ad esempio quello di voto, quello di possedere un proprio conto personale.
Ad esempio, è da meno di sessant’anni che, in un paese come la Francia o anche come l’Italia, una donna può aprire un conto corrente banalmente senza la firma di un uomo.
Nel mondo ancora le discriminazioni sono tante.
Le donne subiscono continue esclusioni, negazioni, privazioni, quindi è importante l’8 marzo riflettere sul valore dell’impegno di tutti e di tutte, non è un modo per festeggiare un genere ma un modo per mettere al centro l’importanza e il valore che ha in questo caso il genere femminile nella comunità mondiale.
Quali parole è meglio usare per parlare della condizione femminile in Italia?
Più che una parola che descrive la condizione femminile in Italia sceglierei una parola che è una sorta di augurio per la condizione femminile in Italia, ed è la parola collaborazione.
La parola collaborazione perché è dall’unione, dall’impegno, dalle fatiche, dagli sforzi e dalla volontà di tutti e di tutte che la condizione femminile può migliorare.
Non bastano la consapevolezza, la forza e il coraggio delle donne, serve soprattutto l’impegno anche da parte degli uomini, degli uomini delle istituzioni e degli uomini del potere.
L’impegno di creare una comunità che sia più equa e che sia più parificata e quindi che permetta effettivamente uno sviluppo della condizione femminile e in generale poi di riflesso della condizione di tutti.

Le donne e la libertà finanziaria
A proposito del fatto che le donne con fatica hanno acquisito il diritto di aprire un conto corrente personale, senza l’obbligo della firma di un uomo, è stata fatta una ricerca, dalla quale emerge un gender gap in ambito finanziario ancora troppo forte.
Gli istituti mUp Reasearch e Norstat hanno condotto una ricerca sulle donne e la finanza personale: dai dati emerge che 2 su 3 (il 67,3%) dicono di saperne poco o nulla. Tempo e denaro sembrano essere i limiti maggiori alla formazione finanziaria, ma quasi 20.000 donne dichiarano di non approfondire la materia perché il partner non vuole.
Il 36% delle intervistate ha detto di considerare la finanza personale un argomento troppo difficile, il 20% ha semplicemente risposto di non essere interessata alla materia e, se si guarda alle donne che vivono insieme ad un partner, addirittura emerge che il 12% ha ammesso di non interessarsi all’argomento perché se ne occupa lui.
In realtà, a scorrere i numeri dell’indagine, si scopre che ben 1,4 milioni di donne italiane vorrebbero colmare questa lacuna, ma non riescono a farlo per diverse ragioni; il 54% perché non ha tempo, il 44% perché non ha le risorse economiche necessarie (percentuale che supera il 53% tra coloro che abitano al Sud e nelle Isole). Ben più grave è la condizione di quasi 20.000 donne che hanno dichiarato di non poter approfondire la materia perché il partner non vuole.
Le donne che hanno dichiarato di conoscere l’ambito finanziario sono il 38,6% delle intervistate, di età compresa tra 35 e 44 anni. Passiamo al 30,8% tra le 55-64enni e al 30,2% tra le over 65.
Fa riflettere come la principale fonte di preparazione sulle tematiche della finanza personale non sia la scuola (solo il 12,5% dice di aver imparato qualcosa sul tema grazie al proprio percorso di studi) ma l’autoapprendimento; infatti, il 57% ha dichiarato di averlo fatto da sola.
Per il 23% sono state importanti anche le esperienze lavorative, mentre anche il ruolo della famiglia nell’educazione finanziaria delle donne rimane marginale (5,5%).
Concludo con questa riflessione. Mi indicherete certamente come femminista, nella sua peggiore (e sbagliata) accezione, cioè come una donna che odia gli uomini. Non è affatto così. Ogni giorno cammino di fianco a uomini (e donne) che si battono affinché entrambi i generi abbiano pari opportunità: politiche, economiche, sociali, professionali e, soprattutto, umane.
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